Buona e mala politicaIl continuum della campagna elettorale

Usciti dalle urne del 4 marzo, solo a giugno abbiamo capito fino in fondo il cul de sac in cui gli italiani avevano cacciato l’Italia. Per un po’ l’obiettivo di dare un governo al Paese ha reso i...

Usciti dalle urne del 4 marzo, solo a giugno abbiamo capito fino in fondo il cul de sac in cui gli italiani avevano cacciato l’Italia.

Per un po’ l’obiettivo di dare un governo al Paese ha reso immaginabile il film di sempre: finite le elezioni, si debbono archiviare le sparate, i voli pindarici, le promesse da marinaio. E si debbono fare i conti con i fondamentali dell’economia e con il pallottoliere delle decisioni parlamentari.

Il film del “cambiamento” – girato attorno al copione del contratto di governo – non ce lo siamo sognati. C’è stato. Ma non ha mai smesso di girare anche il film della continuità della campagna elettorale. Cioè il film che rilancia promesse e punta a finanziare la nuova trincea attraverso misure per cercare di confermare agli elettori che hanno investito sul “tutto subito” che subito qualcosa succede. Misure che naturalmente possono far saltare la contabilità pubblica. Cosa comprensibile in un quadro in cui attorno all’espressione “interessi del Paese” non c’è né una condivisione morale né una convergenza concettuale sia nel sistema politico in generale (debolezza delle istituzioni) sia nello stesso ambito della maggioranza.

Dunque costruita una maggioranza di vincenti (Lega e 5 Stelle) e una minoranza di perdenti (PD e Forza Italia) – che è stato un modo forte di scompaginare oggettivamente lo schema destra-sinistra – adesso le forze di governo non hanno tempo di fare quello che farebbe un “governo normale”: consolidare progetti, meditare sui conti, lavorare sulle condizioni dell’economia reale e quindi sull’occupazione reale, pensare a medio-termine alla formazione della classe dirigente. Non hanno tempo nemmeno per programmare l’immagine internazionale dell’Italia all’altezza della complessità del mondo. No. Inutile illudersi. Hanno il tempo per cambiare l’elmetto e mettersi in trincea – cioè nella piazza virtuale dei media – per due battaglie senza esclusione di colpi:

  • quella per dare una politica estera alla compagine gialloverde, cercando alleanze nello schema euroscettico ma anche compiendo scelte più importanti nelle appartenenze ai gruppi parlamentari europei (pensando che solo qualche tempo fa il progetto di portare 5 Stelle nell’ambito del gruppo liberale europeo aveva avuto qualche possibilità di riuscire, impedito da uno scandalo alimentato anche da chi avrebbe avuto solo vantaggi alla piena costituzionalizzazione europeistica dei grillini);
  • quella di avere ciascuno dei due partiti al governo un decimale in più dell’altro per mantenere o per cambiare, da giugno 2019, il ruolo del partito italiano di maggioranza relativa.

Quanto alla Lega essa è favorita sia dalla crescita a spese dell’alleato istituzionalmente più impacciato, sia dalla appartenenza più “semplificata” negli schieramenti europei (quella del centrodestra) e soprattutto più in linea con una opinione pubblica transnazionale che vuole bacchettare gli eurocrati e tenere fuori dalla porta l’ondata migratoria soprattutto di origine africana.

Effettivamente la profonda diatriba in seno al PD rende questa acrobazia dei partiti di governo più facile.

I dem spendono al loro interno una grande quantità di energie, pur nel minimo sindacale di alzare la voce in Palamento e di twittare a raffica (diverso è apparso il clima della Leopolda 9 che invece, per la prima volta negli eventi recenti del PD, cerca toni e profilo identitario adatto alla lunga marcia nello scontro elettorale, anzi in quello che sarà sicuramente lo scontro post-elettorale).

Ci saranno le aperture che non pochi esponenti del centrosinistra allargato auspicano per togliere dall’isolamento il PD? Aperture che potrebbero riguardare potenziali di politica parcheggiata, soggetti della società civile rifugiati nel localismo anziché stare in una moderna politica delle autonomie e anche riaccendere un vecchio rapporto dialettico con sindacati e altre rappresentanze che a furia di sentir predicare la disintermediazione (anche da pezzi importanti dei governi di centrosinistra) hanno determinato separatezze pericolose per chi deve operare strettamente con le fasce sociali organizzate del sistema del lavoro.

Il continuum della campagna elettorale per i gialloverdi si gioca negli equilibri comunicativi, stando attenti agli effetti boomerang della loro inclinazione alla propaganda e cercando di valorizzare qualche provvedimento portato a casa. Mentre per il centrosinistra (che talvolta sembra che fronteggi queste elezioni europee come fossero tra due anni non tra sei mesi) si gioca mettendo a punto entro pochissimo tempo un piano strategico vero e al tempo stesso creativo, aderente alla cultura di una politica competente ma guardandosi bene dal lodare solo il passato e l’esistente.

In termini di difficoltà progettuale e gestionale lo svantaggio del centrosinistra sui gialloverdi è pesante e si somma al disorientamento ancora non smaltito per lo shock della sconfitta di marzo. Ma non è ancora detto che la condizione impari insieme a tempi ormai risicatissimi non faccia drammaticamente quadrare decisioni sagge e responsabili riportando in cabina di regia gente con la testa sulle spalle.

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