L’autore segnala che il testo potrebbe apparire nella lettura in alcune parti sconclusionato a causa di un “correttore automatico” che nel passaggio tra immissione e pubblicazione si presume svolga delle imprevedibili variazioni (che dopo vari tentativi di correzioni continuano a riformarsi )
La relazione politicamente rozza del governo italiano con la tecnologia europea dello sviluppo territoriale complica ulteriormente le cose.
E la manovra di bilancio, al di là dei decimali, non cambia di una virgola la situazione.
Stefano Rolando
Giorgio Ruffolo , in occasione del 150 ° dell’Unità d’Italia scrisse un famoso libro per segnalare, piuttosto, proprio il concetto anti-celebrativo, cioè quello della condizione pericolosa d’Italia [1] .
La tesi di Ruffolo teneva aperto ancora un filo di speranza, ma segnalava una situazione critica abbondantemente consolidata:
“L’unità nazionale italiana è sempre stata minacciata, ma mai veramente attuata. Ma anche oggi sono sempre più forti le spinte che puntano a una dissoluzione dello stato unitario. Forse il problema è, come avevano già capito gli Arabi, che l’Italia è un paese troppo lungo. Se ci fu un momento in cui avrebbe potuto essere il Sud, unificato dai Normanni e dagli Svevi, a costituire il nucleo dell’unità italiana, esso sfumò. Da subito il Risorgimento rischiò di invischiarsi nella palude dell’anti-risorgimento, ma se i pericoli per l’unità furono nei secoli scorsi il nazionalismo violento del fascismo o il potere temporale della Chiesa cattolica, anche oggi non mancano le minacce, da una forma di populismo privatistico antagonista del sentimento patriottico, una una decomposizione del tessuto nazionale, presente al Nord in forme provocatorie ma tutto sommato pacifiche, e incombente al Sud nella secessione criminale delle mafie. Ma una speranza c’è: realizzare attorno a un progetto nuovo di unità nazionale una vasta rete di solidarietà sarebbe il segno che la gente, oggi abbandonata all’autoritratto sterile dei sondaggi, può ancora trasformarsi, riconoscendosi nel suo passato, impegnandosi nella costruzione del suo futuro, in popolo “.
Questo tema a cui corrisponde – accentuatamente negli ultimi anni (dalla fine del “laboratorio” per la coesione nazionale creato da Fabrizio Barca nel quadro del Governo Monti) – un declino progressivo di cio che per quasi due secoli si e chiamato “ meridionalismo ”, dunque declino di elaborazione ma anche di legittimità stessa, torna in mente a fronte dei problemi che la “rottura” del paese troppo lungo pone in quotidiana evidenza.
Chi scrive appartiene per nascita e per formazione al nord; ha dedicato al lavoro nella capitale la parte sostanziale del periodo professionale; e – memore di una radice meridionale della famiglia materna – ha optato per la presidenza di una fondazione dedicata al pensiero e all’opera di Francesco Saverio Nitti, che ha sede al sud (Basilicata) ma soprattutto è ispirata a un meridionalismo senza piagnistei e dunque culturalmente pronto al riscatto, salvo agire nel quadro di muri sempre più alti e quindi sempre più ostacolanti.
Il tema è tornato a proporsi come ipotesi di lavoro nell’ambito del contratto di governo firmato da due dissimili forze politiche, di cui la prima (la Lega) ha raccolto al nord il suo principale bacino elettorale e al nord ha maturato la sua cultura programmatica (pur cancellando la parola nord dal logo per opportunismo elettorale); mentre la seconda (M5S) ha un programma capace di accendere più speranze al sud e al sud ha ottenuto risultati elettorali stupefacenti che ne fanno il primo soggetto politico territoriale.
Il punto in assoluto più sintetico del “contratto” (il n.25) evoca l’espressione “Nord-Sud” affidando comunque un esile, esilissimo, riferimento alle politiche connesse. Così recita il punto:
“Con riferimento alle Regioni del Sud, si è deciso, contrariamente al passato, di non individuare specifiche misure con il marchio” Mezzogiorno” , nella consapevolezza che tutte le scelte politiche previste dal presente contratto (con partiolare riferimento a sostegno al reddito, pensioni, investimenti, ambiente e tutela dei livelli occupazionali) sono orientate dalla convinzione verso uno sviluppo economico omogeneo per il Paese, pur tenendo conto delle differenti esigenze territoriali con l’obiettivo di colmare il gap tra Nord e Sud”
Lo sviluppo economico omogeneo lo hanno predicato tutti i governi, quelli dell’Italia monarchica e quelli dell’Italia repubblicana. La questione di attuare sostanziale competitività tra i territori (all’interno del Paese e all’estero) resta tuttavia la stessa della regolazione del concetto di “concorrenza”, per il quale se non si norma una velocità per il soggetto che aspira a concorrere non si realizzano mai condizioni paritarie evolutive. Dunque, ai provvedimenti su misura bisogna guardare per capire se all’obiettivo dichiarato di “colmare il gap” (evidentemente ammesso) corrisponda un percorso valutabile.
Al di là di esaminare le misure (troppo presto e troppo confuse), potrebbe essere la stessa dinamica incrociata dei macro-territori di riferimento (nord e sud) a garantire o almeno a promuovere qualche soluzione, malgrado nei primi sei mesi questo auspicio resti zavorrato una terra
Se ci fossero indizi contrari chi scrive li registrerebbe con grande apprezzamento. Ma l’inventario – strattonato dalla immensa quantità di energie messe attorno al “reddito di cittadinanza” apparso progressivamente come strumento elettorale e non come leva per lo sviluppo – non consente registrazioni. Così come non ci sono apprezzabili misure che si segnalano nella manovra di bilancio in discussione , al di là delle polemiche sui decimali del deficit.
Dunque il rischio che appare sempre più evidente è che, in assenza di un progetto più mirato e caratterizzato, in assenza di una elaborazione legislativa che dovrebbe essere migliore di quelle a cui hanno messo mano tanto la prima che la seconda Repubblica, allo stato cominciano a non sembrare sufficienti le spinte “genetiche” dei due movimenti al governo per comporre una convincente e lucida strategia.
Una strategia al servizio di un tema che per alcuni è il primo problema del Paese . Essendo comunque a tutti evidente che una “non soluzione” ne farebbe la prima causa di ulteriore freno alla crescita e quindi di vanificazione di tutti i propositi sbandierati con la manovra di bilancio e alla fine di irreversibile involuzione.
Per avere una soluzione il governo gialloverde dovrebbe ormai disporre di una classe dirigente migliore del meridionalismo applicato nelle istituzioni, nelle imprese (e loro rappresentanze) e nel raccordo con i fondi di investimento europei. Un meridionalismo che si è fin qui espresso con risultati, come si sa, deludenti.
Dunque decisori in grado di creare, come sempre, una certa massa critica finanziaria; ma in grado di rendere legittima e credibile la volontà di procedere verso un “cambio di verso” nel reciproco rapporto tra nord e sud Italia, impresa difficile in passato anche per figure illuminate e colte.
Riprovarci con figure che si considerano più “popolari” avrebbe gran senso, ma in quella filigrana ci deve essere la storia del buon senso di un popolo, non la sommatoria di rancori.
Senza entrare nelle scelte, non si vedono brillare stelle, non si leggono documenti illuminanti, non si ascoltano voci convincenti nel pubblico pubblico .
E per insostenibile aggiunta, si sentono invece voci rozzamente indirizzate a contumeliare l’Europa, proprio quell’Europa dello specialismo gestionario in cui si annidano moltissime competenze protese a lavorare per la cultura dello sviluppo, che andrebbero conosciute con adeguata relazionalità e portate ad esaminare con intreresse i rigenerati obiettivi di quel generico progetto di “colmare il gap Nord-Sud” . Che, se restasse puro flatus , significherebbe la più evidente sconfitta di un governo italiano nell’età contemporanea.
[1] Giorgio Ruffolo, Un paese troppo lungo. L’unità nazionale in pericolo , Einaudi, 2011