Buona e mala politicaIl manuale di resistenza alla neo-lingua populista

Massimiliano (Max) Panarari è generazionalmente al centro dei contesti del cambiamento di cui soprattutto parliamo. Ma a differenza di chi si dedica professionalmente alla politica, lui tiene rap...

Massimiliano (Max) Panarari è generazionalmente al centro dei contesti del cambiamento di cui soprattutto parliamo. Ma a differenza di chi si dedica professionalmente alla politica, lui tiene rapporti a vista con gli scaffali delle interpretazioni.

Quello classico perché la carriera universitaria lo obbliga a citazioni nella loro concatenazione sapienziale.

Quello della rivoluzione tecnologica in corso, perché è evidente che “l’impatto destabilizzante di Internet sul nostro modo di comunicare e di valutare l’operato della classe dirigente” (come lui stesso scrive) sta modificando tutti i concetti mitologici delle scienze politiche (a cominciare da quello di “democrazia”).

Quello delle sub-culture contemporanee perché, tra i primi, ha fatto qualcosa in più che annusarle ma, dal 2010, con L’egemonia sottoculturale[1], ha mostrato la sua perizia nel tenere connessi i tre scaffali studiando le condizioni culturali dell’Italia postmoderna e intuendo il passaggio dall’egemonia politica della sinistra novecentesca – i cui aspetti furono delineati da Antonio Gramsci – a quella “sottoculturale” della nuova destra postmoderna.

Sociologo, saggista, editorialista, professore, conduttore, opinionista televisivo, lui stesso incrocia intellettualmente mezzi e processi della diatriba più interessante del nostro tempo, smascherando chi spaccia per nuova la minestra riscaldata; ma anche aiutando chi, alle prese con paradigmi in cambiamento ultraveloce, non riesce più a star dietro ai significati.

Osserva, legge, confronta, discute e scrive. Alla fine piazza in centocinquanta pagine un mini-compendio enciclopedico delle voci indispensabili per stare sul problema primario del dibattito pubblico[2], con relativa fatica (due ore), relativa spesa (12 euro), relativa ansia (se vuoi accedere alla mitologia dell’ossessione nuovista appartieni, per ora, più alla provocazione che alla colpa; ma se vuoi mantenere il senso critico di una volta, armati di santa pazienza perché – scrive – “il neo-populismo non è una fase transitoria, è un cambio di paradigma della politica a tutti gli effetti, è la trasfigurazione in apparenza senza ritorno dell’idea illuministica di opinione pubblica”).

Le macro-voci di questo libro sono sei: il rapporto ideologico tra demagogia e populismo; il concetto di “popolo”; l’apparenza della “autenticità”; la tecnologia (e il suo rapporto con la propaganda); la “formula magica dell’epoca”, ovvero la disintermediazione; il punto centrale dell’indagine (che investe il titolo) e cioè la democrazia diretta.

Mi soffermo qui (in breve) sul passaggio che tiene insieme vezzi e strategie, cioè proprio quello della cultura della disintermediazione. Come altre malefatte contemporanee (ma questa forse è una malizia del “comunicatore pubblico” che qui scrive, che ha carpito concetti al marketing ma vieppiù ne diffida) l’origine della pratica è collocata come originaria categoria appunto del marketing: venire al dunque, riducendo i tempi e i costi di inutili mediazioni. Insomma – dalle preveggenze del 1983 dell’imprenditore ecologista Paul Hawken [3]– saltare i livelli intermedi della catena di distribuzione delle merci. Mutuando poi il significato dalla catena materiale a quella immateriale. La rete in venticinque anni ha oceanizzato questo concetto coinvolgendo religione, filosofia, politica. Figuriamoci se restano esenti le deliberazioni, quella elettorale compresa. Dice Panarari che dall’epoca dei sessantottini e dalla visionaria controcultura libertaria c’era l’idea di abbattere muri e formalismi e rendere tutto disponibile al “popolo”. Ecco fatto.

Lo spunto ci aiuta a capire come nel nuovismo si siano rigenerate storie che la cultura della rete doveva metabolizzare e riproporre. Ci dice, anche accettando l’idea che tutto ciò non sia transitorio, che non deve essere nemmeno totalitario. E ci dice che, valutando meglio di che si tratti, la politica che continua a profilarsi come “res severa”, anche senza immaginare guerre di religione, difenda con adeguata ironia e intelligenza gli istituti che non hanno ancora smesso di produrre giustizia e libertà.

[1] Massimiliano Panarari, L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip, Einaudi, 2010

[2] Massmiliano Panarari, Uno non vale uno. Democrazia diretta e altri miti d’oggi, Marsilio,2018.

[3] Paul Hawken, The next economy, Henry Holt & Co, 1983 (nuova edizione settembre 1987)

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