Si sostiene da più parti che la democrazia rappresentativa sia in crisi, ma forse è in crisi la leadership democratica. Il partito leggero ha fallito clamorosamente, perché si fondava sul presupposto di una assenza di responsabilità verticale delle élites. Bastava solo seguire quello che il popolo esprimeva, intercettandolo attraverso i sondaggi, poi dirgli quello che voleva sentirsi dire e con qualche strategia comunicativa azzeccata il gioco era fatto. Ne è risultato che le elites non hanno più dovuto formarsi, se non nella tecnica comunicativa. I politici della prima repubblica avevano fatto lunga gavetta politica (Berlinguer, Andreotti) oppure intellettuale prima che anche politica (Moro, Taviani, Mattarella) oppure erano intellettuali prestati alla politica (Spadolini, Andreatta, Prodi). Quelli di oggi spesso non hanno alcuna formazione intellettuale, (a malapena un liceo, o una laurea appena abbozzata), ma sanno stare davanti ad una telecamera, sanno chattare, twittare, fare video su Facebook, hanno la battuta pronta, rilanciano, e non dicono mai, come non sapeva fare Fonzie, “I am wrong”. Il risultato è che seguono quello che pensa la “gente”, sapendo che la “gente” è volubile; dicono ora una cosa, subito dopo un’altra, poi ritornano a dire la cosa di prima, a seconda del sondaggio che hanno appena letto. Ne risulta un senso di improvvisazione, di mancanza di prospettiva, di mancanza di “pensieri lunghi” berlingueriani o di “ragionamendi” demitiani. Per non parlare degli argomenti di Moro.
Per questo non è il meccanismo del suffragio che va ripensato, in senso epistocratico magari, ma la selezione delle leadership. E per quanto riguarda il Pd, forse non si tratta più di assecondare la “gente” (a me questo termine non piace, preferisco “cittadini”, o anche “popolo”, se questi due termini non fossero stati drammaticamente stravolti dalla retorica populista – gentizzàti appunto) ma formarla, accompagnarla, e perché no, gramscianamente educarla.
Io non posso guardare un leader politico sentendomi come lui, mi devo sentire come uno che può e deve imparare da lui, devo guardare a lui per capire maggiormente nche quello che io stesso faccio fatica a pensare, per avere un surplus di comprensione , di orientamento, di linea sul presente e sul futuro. Questo vuol dire anche che un po’ di narcisismo del leader ci può stare, ma quello sano, ben temperato, reso umile dalla cultura attraversata, non il narcisismo maligno ego-distonico incapace di autocritica e di proferire il termine “noi”…
A me pare che in questa direzione si stia muovendo qualcuno nel Pd. E non mi nascondo dietro un dito dicendo che quel qualcuno mi sembra Zingaretti. Ovviamente questo giudizio vale per me solo, e ringrazio il cielo liberal democratico di non essere un giornalista ma solo un blogger, per potermi esprimere con tale libertà qui sopra. E comunque, chiunque vinca nel PD – fosse pure Renzi, che non vedo perchè non si dovrebbe ripresentare – non potrà che affrontare, speriamo con più strumenti di analisi rispetto a quelli qui abbozzati, lo stesso problema del rapporto tra classi dirigenti e cittadinanza.