La “maratona oratoria” per Gianni De Michelis, ieri alla Sala della Regina alla Camera dei Deputati, meriterebbe davvero la visitazione di antichi amici e nemici, ancor più di nuovi curiosi e soprattutto – in maggioranza – di diffidenti e indifferenti. Per ritrovare sentimenti civili ma anche per scoprire il caso più eclatante di un protagonista della prima Repubblica da accertare negli aspetti di sostanza e non nelle dicerie che lo hanno riguardato.
Nell’evento si è parlato di una comunità progettuale e generazionale che lasciava tracce in tanti mondi esterni. Mondi politici, ad esempio, e cioè democristiani, liberali, radicali, comunisti (ascoltati qui alcuni del tempo: Paolo Cirino Pomicino, Beppe Facchetti, Massimo Teodori, Valerio Veltroni che hanno colto in De Michelis e in generale in quel gruppo dirigente intuizioni salvifiche “per tutti”). Ma anche altre tracce: governanti cinesi che non hanno voluto perdere gli spunti liberi di uno che pensava politica pensando prima di tutto alla geopolitica; giovani che negli anni successivi si sono rifatti a un modello credibile di ragione e passione; persino giornalisti disposti a nascondere la brama dietrologica di fronte ad una prorompente brama progettuale. E potrei continuare.
Ho seguito in sala dalle 10 alle 12. Poi un impegno non spostabile mi ha obbligato a lasciare (senza potere così intervenire, così che qui in forma fugace supplisco). Le due ore successive le ho riviste poi nello streaming della Camera dei Deputati. Tanti amici ritrovati, inevitabile una certa commozione. I diplomatici si erano preparati testi (salvo Umberto Vattani, raramente spiritosi). La “nostalgia della comunità” sentimento molto invasivo (Claudio Signorile la ha chiamata “famiglia”, Stefania Craxi “scuola”, Fabrizio Cicchitto “generazione”, Renato Brunetta ha cambiato integralmente il suo registro passando dal “polemico” Franti ai ragazzi della Via Paal). In complesso una bella cerimonia, condotta dallo stesso Brunetta e da Mattia Feltri, capace di proporre i due figli di Craxi seduti vicini in prima fila e soprattutto con belle argomentazioni complementari.
I collaboratori stretti di Gianni carichi di aneddotica, finalmente in libertà. Luigi Barone stupefacente sulla “crisi di governo” durata un’ora per consentire a Craxi di avere per un’ora dal Quirinale, cioè da Pertini, le deleghe della Difesa al fine di mandare i carabinieri sotto l’aereo a Sigonella dal momento che la Batteria dava per non ritracciabile il ministro Spadolini. Per me gli interventi con più valore aggiunto sono stati quelli di Maurizio Sacconi (la portata reale della battaglia sulla scala mobile) e di Stefano Parisi: “Non si innamorava mai delle sue idee. Era pronto a rimettere tutto in discussione. Riconosceva le intelligenze, le cercava, girava il mondo per incontrare chi avesse potuto aprirgli gli occhi sul futuro. Era un divoratore di libri, documenti, analisi, tabelle. Voleva capire, doveva capire.”.
Il reiterato appello di Massimo Teodori – ora con più flebili accenti – a mettere davvero insieme il blocco liberalsocialista della politica italiana viene proposto osservando che il pragmatismo alla De Michelis sarebbe stato il più forte alleato di quel progetto rispetto all’identitarismo di tutti i soggetti che si sono invece attratti e rifiutati tra di loro per mezzo secolo.
Quattro ore non riescono a inventariare tutto. Ma non è frequente leggere un così univoco sincero rispetto per il rapporto tra politica, intelligenza e conoscenza che non solo è un evento in sé ma diventa addirittura un monumento rapportato al momento storico che viviamo che fa prevalere il distacco programmato tra politica e conoscenza e in molti anche tra politica e intelligenza.
Cosa resta allora da dire nel necessariamente breve commento a caldo? Resta la necessità di rispondere meglio al quesito che, nelle quattro ore, qualcuno ha posto ma che è stato risolto retoricamente. “Ma allora – questo il quesito – dato ciò che si è detto e dato tutto il contesto narrato, perché è crollato tutto, perché questa spinta decisiva a volere cambiare riformisticamente l’Italia, spinta generata soprattutto dai socialisti tra gli anni settanta e ottanta, è stata pervicacemente distrutta trasformando una classe dirigente in un pensionato?”. Alla luce di tutte le rilevanze fatte da storici e analisti è chiaro che la risposta, per qualche tempo in voga, “perché i socialisti erano tutti ladri” è derubricata, al netto di casi specifici che si annidavano comunque nell’intero sistema. Ma va anche tenuta a freno la risposta che oggi invece è risuonata: non trasformiamo questa rievocazione nella constatazione di una sconfitta. Lo stesso De Michelis profetava – come è stato ricordato – che, liquidata quella generazione, giovani sconosciuti avrebbero ripiantato una bandiera nel nome di una moderna cultura socialista.
La profezia sarebbe accettabile solo se si prova a rispondere con più coraggio al perché del processo destruens. Quello in cui finora le voci in campo hanno tendenzialmente scaricato su altri le ragioni più evidenti – quindi a buoni conti esistenti – dell’annientamento (i comunisti, i magistrati, i media, persino i “corpi interni” di uno Stato conservatore abituato – già dal fascismo – a liquidare per primi i riformatori).
Negli ultimi anni il mio personale pensiero – che è la cosa che forse oggi avrei potuto tentare di dire – è andato a una insufficienza strutturale della formazione della classe dirigente socialista a cui nello schieramento riformista mancava (abbastanza) il pessimismo lamalfiano, il minoritarismo pannelliano, il diplomatismo dei miglioristi, il primato sociale dei cattolici, eccetera.
C’era diffusamente – e la giornata di oggi è stata una solare rappresentazione – la certezza del successo, la percezione di vivere nel film giusto e di perseguire obiettivi giusti e raggiungibili. C’era in molti l’auto-conforto del lieto fine. Detta con altre parole, nella formazione di quella “generazione” (con mia “appartenenza”, anche a quello spirito, da metà degli anni ’70 a metà degli anni ’80) non c’è stata sufficiente e temprante educazione alla sofferenza, ovvero alla sconfitta possibile (che apparteneva tendenzialmente ad altre culture politiche). E quindi a vivere l’occasione storica come un laboratorio a metà tra l’entusiasmo della costruzione e la simulazione del “piano B”, fatto di meditate reazioni a delusioni, mascalzonate, sabotaggi, insufficienze. E persino reazioni al destino imprevedibile (leggibile in modo tanto storico-laico quanto religioso) che rovescia spesso piani e volontà. Un clima psicologico che assomigliava al tempo del positivismo di fine ottocento che non voleva o non poteva neppure immaginare gli esiti nefasti che il ‘900 stava per riversare su tutti. Claudio Martelli una volta (credo in occasione della conferenza di Rimini) si interessò al tema del “dolore”, ma forse per intuizione scenaristica. Quello che forse aveva più intuito l’esigenza del “piano B”, ovvero del tempo lungo di una marcia sofferta, era il tuttora vivo e vegeto Rino Formica che sintetizzava la politica professionale con due parole: “sangue e merda”. Ma al tempo era un monito che si confinava nella tornitura trotzskista di un compagno un po’ più anziano e un po’ particolare. Il copione ai più faceva leggere un’altra sceneggiatura.
E in un lampo il film finì in modo imprevisto.