È giallo sul futuro del presidente della Bundesbank Axel Weber, che avrebbe ritirato la sua candidatura per la presidenza della Banca centrale europea. Si spiana quindi la strada per Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, unico pretendente rimasto in gara. Con una nota, la banca centrale tedesca ha precisato che non è a conoscenza del destino professionale del suo attuale presidente, dato come futuro numero uno di Deutsche Bank. Eppure secondo Reuters Weber non correrà per la successione di Jean-Claude Trichet, che il 31 ottobre 2011 terminerà il suo mandato al vertice della Bce.
Si tratta di una novità, dato che se fino allo scorso settembre Draghi era in pole position per l’avvicendamento, in questo inizio d’anno non sembrava più essere così. Il Wall Street Journal infatti aveva cambiato idea, considerando più gradito Weber. E di certo, l’Italia non ha dato una mano al suo governatore. Nulla è però definito, dato che a sorpresa spunta Christian Noyer, presidente di Banca dei regolamenti internazionali e Banque de France.
Nel settembre 2009, un anno dopo il fallimento di Lehman Brothers, il nome di Draghi era quello più udito negli ambienti della finanza che conta. Da Bruxelles a New York, passando per Francoforte e Londra, il governatore di Palazzo Koch era considerato il più autorevole inquilino dell’Eurotower per il dopo Trichet. Merito sia del suo curriculum, che ha in Goldman Sachs un passaggio chiave. Inoltre, la presidenza del Financial stability board (Fsb), il principale organo di sorveglianza finanziaria globale, poteva essere l’asso nella manica di Draghi. Un appoggio, nemmeno troppo informale, era giunto dal ministro degli Esteri Franco Frattini: «Se lo prendessero in considerazione noi ne saremmo onorati, sarebbe un orgoglio certamente per l’Italia». Seguirono gli endorsement di Economist, Financial Times, The Banker e Wall Street Journal. Il gotha economico-finanziario mondiale sembrava tutto con l’italiano.
A inizio gennaio però era Weber a essere il primo sulla lista. Il quotidiano newyorkese infatti lo segnalò come il più papabile per la lunga corsa a Francoforte. E subito iniziò la ricerca al colpevole. Non è difficile trovarlo, nemmeno oggi. Tutti gli indizi portano all’assordante silenzio di Roma verso uno dei suoi uomini migliori. Dopo l’exploit di Frattini, il nulla o quasi. Da Roma non è mai arrivato un esplicito mandato per la candidatura di Draghi. Né il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi né il ministro dell’Economia Giulio Tremonti hanno ufficialmente messo in agenda la possibilità che il numero uno di Banca d’Italia possa diventare il presidente della Bce nel prossimo novembre. L’unico guizzo di orgoglio è arrivato recentemente, quando Berlusconi ha incontrato il Cancelliere Angela Merkel. Poi, il nulla.
E dire che gli ostacoli messi dalla Germania sul percorso di Draghi verso Francoforte non sono stati pochi. Dapprima le stilettate del settimanale Der Spiegel che la scorsa primavera, nel pieno dello scandalo dei magheggi contabili condotti dalla Grecia con la consulenza di Goldman Sachs, aveva usato contro il governatore, tacciato di essere nel board del colosso di Wall Street nello stesso periodo. Dopo alcuni mesi a ribattere contro Draghi fu la Frankfurter Allgemeine Zeitung, che in un editoriale di fuoco ricordava all’Europa che il controllo della Bce non poteva finire in mano di un italiano. Colpa del precario stato delle finanze pubbliche italiane, delle incertezze politiche e dell’affinità di Draghi con gli ambienti del Bilderberg. O almeno questa è la percezione a senso unico che arriva da Berlino, differente da quella londinese o newyorkese.
Per Draghi ora non ci sono più impedimenti. In realtà, dal punto di vista delle referenze, anche prima della dipartita del tedesco erano pochi. Weber più volte ha dimostrato di non avere lo smalto del vincente, come spesso ha fatto notare il quotidiano tedesco Handelsblatt. Anzi, nelle sale operative di Borsa le sue parole vengono tacciate di avere l’effetto contrario a quello da lui sperato. «Se lui parla, l’euro ripiega inesorabilmente», fa notare un analista di NewEdge a Londra. Tuttavia, la partita per la Bce non è solamente una questione di sentiment dei mercati finanziari. È soprattutto una vicenda politica e in questo campo l’Italia sta continuando a giocare poco e male. Peccato, perché le chance non sono mancate, a cominciare dallo scandalo di Thilo Sarrazin, consigliere della Bundesbank cacciato mesi fa per le sue affermazioni xenofobe. Roma avrebbe potuto osare di più in quello che era uno shock senza precedenti per la storia della banca centrale tedesca. Ma doveva esserci più coraggio anche sulla questione degli incontri bilaterali tra Berlino e Parigi, come quello di Deauville dello scorso ottobre in cui si è deciso il nuovo Patto di stabilità. Così non è stato e a spingere Draghi è stata solo la dipartita di Weber.
L’Italia ha infatti rischiato di cadere, almeno nel caso di Draghi, sotto il fuoco amico, quello dei dissidi interni. Troppo impegnata a disfarsi internamente, la maggioranza di governo ha dimenticato quale fosse una delle poltrone chiave alla portata di Roma. Il lavoro di Draghi al vertice del Fsb è stato riconosciuto dal Financial Times come «uno dei più brillanti esempi di lungimiranza nella previsione delle future crisi finanziarie». Sembra però evidente che in Italia non se ne siano accorti in molti. Quella di oggi è una piccola vittoria, ma la strada che porta all’Eurotower è ancora lunga.