Rcs e Generali hanno in comune il primo azionista (Mediobanca) e due soli amministratori. Sono Cesare Geronzi e Diego Della Valle. Il presidente della compagnia assicurativa triestina siede infatti nel consiglio di amministrazione di Rcs Quotidiani, la società che edita il Corriere della Sera, assieme a Piergaetano Marchetti, Giulio Lattanzi, Giovanni Bazoli, Luca Cordero di Montezemolo, Antonello Perricone, Giampiero Pesenti, Marco Tronchetti Provera e, appunto, Diego Della Valle. Lo stesso imprenditore marchigiano è consigliere di amministrazione anche della capogruppo Rcs Mediagroup e di Generali.
Colpisce dunque particolarmente che sia stato Della Valle ad aprire ufficialmente un fronte esplicito all’interno dell’azionariato del Corriere della Sera. Prima rilasciando un’intervista duramente allusiva al concorrente storico, La Repubblica, e poi esplicitando il suo pensiero nei giorni scorsi: «Le Generali devono uscire dal Corriere della Sera. La partecipazione non è strategica e crea malumori tra i soci».
Lasciando perdere per il momento i malumori, difficilmente traducibili in numeri e dati oggettivi, ci possiamo invece dedicare a valutare la non strategicità della partecipazione in un’importante società editoriale. L’obiezione che Della Valle muove a Generali e alla sua presidenza vale perfettamente anche per diverse società che hanno ruolo di soci forti in Rcs: Mediobanca fa la banca d’affari; Fiat fa automobili; Pirelli fa gomme; Rotelli fa ospedali; Premafin tante cose che non riguardano l’editoria; Intesa Sanpaolo è una banca, e così via. L’obiezione può valere anche per Diego Della Valle, che di mestiere produce scarpe, ma al fondatore di Tod’s va riconosciuto che è entrato nel 2002 in Rcs con soldi suoi, non di una società quotata e per definizione aperta al pubblico risparmio, come lo sono tutte quelle ora elencate. Per entrare in quel consiglio di amministrazione Della Valle ha fatto un grosso investimento, mentre il presidente di Generali Cesare Geronzi è nei posti che contano di Rcs da molti anni, indipendentemente da traslochi, fusioni e cambi di ruolo.
Se la partecipazione nella società che detiene il quotidiano di via Solferino non è strategica dal punto di vista industriale, difficilmente chi è chiamato in causa dalla critica di Della Valle potrà difendersi dicendo che è stata un buon investimento. In una misura che cambia a seconda del prezzo di carico e della data di entrata nel capitale, per i soci di Rcs il piatto piange da un po’. Il primo gennaio 2004 Rcs capitalizzava in Borsa 1,991 miliardi di euro. A fine 2010 il valore è sceso a 839 milioni. L’ultimo dividendo distribuito è stato quello relativo al 2007, mentre il totale dei dividendi distribuiti dal 2004 a oggi valgono circa 330 milioni. Poca cosa per chi ha comprato la sua quota – o arrotondato la precedente al rialzo – mentre Rcs quotava 3, 4 o 5 euro per azione. Oggi, dopo una giornata di fitti scambi e rumors, Rcs ha chiuso in Piazza Affari a 1,17, esattamente come il giorno prima e dal settembre del 2008 il titolo non supera 1,5 euro. Per tornare dunque alla redditività, buona compensazione teorica della mancata “strategicità” industriale, se dal primo gennaio del 2004 gli azionisti di Rcs avessero acquistato di anno in anno dei titoli di stato a breve termine avrebbero ottenuto un rendimento lordo tra il 3 e il 4 per cento.
Numeri che parlano chiaro: in Rcs non si entra né si resta per riempire le proprie casse. Lo sa bene chi, da posizione di minoranza, tra i soci propone di tanto in tanto il delisting, l’uscita dalla Borsa, per ripensare una strategia lontano dai riflettori. Lo sanno i soci storici come chi è entrato negli ultimi anni. Più di tutti lo sa Giuseppe Rotelli, un altro che ci ha messo molti mezzi propri, e lo sa anche Della Valle. Vincent Bolloré, vicepresidente di Generali, ha annunciato che la proposta di Della Valle «sarà discussa nel prossimo cda di Generali, o in quello dopo». Difficilmente si parlerà della strategicità di Rcs, ancor meno della sua redditività. Ma forse saranno messi all’ordine del giorno i malumori.