Nei primi giorni dell’anno la municipalità di Pechino ha aumentato del 22% il salario minimo. L’esempio non è rimasto isolato e altre province non hanno perso tempo nell’adeguare il proprio livello delle retribuzioni più basse. A fine gennaio anche il Guangdong, l’area-simbolo del decollo economico cinese, si è adeguato con un incremento del 18% (l’anno prima era stato del 19%). Nel corso di tutto il 2010 nel Guandong, malgrado i salari in loco siano di 2/2,5 volte sopra il salario minimo, si è registrata carenza di mano d’opera. Le aziende di prodotti a basso valore aggiunto reagiscono spostando gli impianti verso l’interno del Paese ma anche lì a volte hanno difficoltà a trovare forza lavoro a prezzi stracciati.
Il problema della scarsità di lavoro a basso costo (ovviamente per gli standard cinesi) non è nuovo, è stato analizzato da tempo e con una certa precisione. Uno studio del 2005 dell’Accademia cinese per le scienze sociali segnalava che per il 2011 si sarebbe esaurita o comunque impoverita quella imponente fuga dalle campagne verso le città che ha permesso manodopera abbondante, quasi illimitata, disposta ad accettare bassi salari e condizioni di lavoro precarie, e con essa il boom dell’industria cinese. Agli inizi dello scorso decennio la fuga dalle campagne registrava anno dopo anno incrementi altissimi, nell’ordine del 70-80%, adesso il flusso migratorio non dovrebbe crescere più, visto che al 2011 ci siamo e, sempre secondo le valutazioni dell’Accademia, dal 2021 si registrerà una tendenza inversa, un ritorno verso le campagne.
Alcune dichiarazioni ufficiali delle autorità di Pechino sottolineavano negli scorsi mesi come la manodopera a buon mercato non fosse più il maggior vantaggio comparativo della Cina per attrarre investimenti dall’estero e, sempre nel 2010, scioperi e proteste di massa per più alti salari e migliori condizioni in fabbrica hanno investito numerose imprese. Spesso coronati da successo, tanto più che la stampa ufficiale ed esponenti del Partito comunista cinese hanno preso posizione a favore delle rivendicazioni. Sempre in questi mesi più volte la stampa ha parlato di un piano governativo per un raddoppio delle retribuzioni nel giro di un quinquennio. Ma già ora le imprese presenti in Cina si aspettano un incremento dei costi netti del lavoro del 30% per il solo 2011.
Indicativa al riguardo la vicenda della Foxconn, il gigante taiwanese di componentistica elettronica finito nell’occhio del ciclone per l’ondata di scioperi seguita ad una impressionante serie di suicidi tra le fila dei suoi lavoratori. Descritta come un esempio in negativo dei limiti del modello cinese basato sullo sfruttamento, questa colossale impresa con oltre quattrocentomila dipendenti era riuscita a uscire dalla difficile situazione in cui si era venuta a trovare concedendo aumenti salariali nell’ordine del 40%, chiudendo così un capitolo che non aveva certo giovato alla propria immagine. Ma i vertici della Foxconn hanno messo a punto un progetto volto a ridimensionare l’impianto produttivo di Shenzhen, trasferendo alcune produzioni altrove nell’entroterra. Nell’attuale impianto dovrebbero rimanere la ricerca e sviluppo e alcune linee produttive, in particolare quella della Apple. La forza lavoro dovrebbe passare da quattrocentomila dipendenti a non più di centocinquantamila. L’aumento salariale concesso si applicherà solamente ai dipendenti di Shenzhen e non agli altri impianti, per i quali vigono salari minimi locali, notevolmente più bassi.
Sono almeno un paio d’anni che in Cina si assiste a un crescente flusso di capitali e impianti verso l’interno. La zona costiera ha ormai profilo, costi, costumi, aspettative e tenori di vita che poco hanno a che fare con il modello di sviluppo labour-intensive seguito in questi anni, e il divario con l’interno si sta trasformando in un fossato. Se a Shenzhen il salario minimo è di 1100 yuan, a Zhengzhou è di 800 yuan, a Wuhan di 900 yuan; a Shenzhen il costo della terra per utilizzo industriale è di 600 yuan per metro quadro, a Zhengzhou è di appena 384 yuan. Al momento, prima ancora che in Vietnam e in altri Paesi in via di sviluppo, la nuova frontiera della crescita non esce dal Paese ma si sposta all’interno, con tutte le conseguenze che ciò comporterà per quelle aree che oggi si candidano a nuovi paradisi industriali.
La disparità tra città e campagna ha toccato il livello più alto degli ultimi decenni. Il reddito pro capite nei centri urbani ha superato i 17.000 yuan (circa 1.700 euro), mentre nelle campagne non va molto al di sopra dei 5.000. Si tratta del divario più alto da quando, nel 1978, la Cina ha dato il via alla politica di riforme e di apertura dell’economia. Pechino non nasconde il problema, il premier Wen Jiabao ha ammesso che questa disparità di reddito è una delle principali minacce alla «stabilità sociale» del Paese e il tema dello sviluppo «ineguale», è stato più volte al centro dei lavori dell’Assemblea Nazionale del Popolo.
Un solo dato permette di visualizzare con efficacia questo crescente gap: la Cina ha oggi più di 450 milioni di utenti Internet (il 23,2% dell’utenza mondiale). Di questi due terzi accedono alla rete tramite cellulare. I bacini d’utenza rilevanti sono tutti distribuiti lungo la costa. Gli studenti rappresentano la fascia sociale più esposta nell’utilizzo della rete, seguiti dai colletti bianchi e dai liberi professionisti.
L’impennata dei salari cinesi appare inevitabile e anche funzionale alla nascita di un mercato interno il cui sviluppo è fondamentale per ridurre la dipendenza dell’economia dalle esportazioni. E proprio per questo, al di là delle difficoltà per gli imprenditori locali e le multinazionali con impianti in loco a coniugare bassi salari e qualità, il fenomeno va affrontato. Non è casuale che se ne sia discusso a Davos in questi giorni. L’impennata dei salari in Cina, alla stregua di quella dei prezzi delle materie prime, potrebbe trasformarsi in un mega-rischio per l’economia internazionale, ma anche in una opportunità, forse uno choc positivo per le imprese occidentali e per Pechino.
Presenta infatti almeno due aspetti favorevoli per le nazioni occidentali: contrasta in modo efficace il mancato apprezzamento della valuta cinese rispetto al dollaro, rendendo più costosi e quindi meno invasivi sui mercati mondiali i prodotti made in China. Dilata i consumi interni permettendo ai prodotti occidentali di alta tecnologia di inserirsi negli enormi spazi commerciali della nazione più popolosa del mondo. E non preoccupa Pechino che non manifesta particolari timori di tipo inflazionistico, i prezzi per il 2011 dovrebbero crescere del 4 per cento e non oltre. Per una volta non sembrano esserci controindicazioni, la crescita dei salari e il progressivo formarsi di una classe media vanno bene quasi a tutti.