“Demand Media” è un nome poco famigliare al pubblico italiano che non si occupa di new media in modo specialistico; eppure dalla fine di gennaio una delle polemiche più vivaci che ha coinvolto negli Usa giornalisti di testate prestigiose, blogger noti e meno noti, relatori di eventi e meeting, riguarda questo brand e il suo modello di business. Il dibattito si è innescato con l’Ipo della società a Wall Street, avvenuta lunedì 25 gennaio 2011.
Il successo dell’operazione finanziaria. Demand Media esercita un fascino irresistibile sul mondo della finanza. Al debutto le quote vengono collocate ad un prezzo di 17 dollari l’una. È un valore più alto di quello stimato durante le fasi di preparazione, quando oscillava tra i 13 e i 15 dollari. Entro 24 ore il titolo subisce un balzo in alto del 35 per cento: il 26 gennaio le azioni valgono 22,61 dollari l’una, per una capitalizzazione di mercato complessiva di quasi 2 miliardi di dollari. La New York Times Co. si ferma ad un valore complessivo di 1,5 miliardi: questo sorpasso suscita lo scandalo, che rimbalza da un post all’altro, e che convoca ad una riflessione allarmata sia i giornalisti, sia il mondo variopinto della classe dirigente dei new media.
Lo sconcerto dei critici deriva dal fatto che Demand Media si classifica tra le società che producono contenuti editoriali – quindi figura tra i concorrenti diretti del New York Times. Fin qui, nulla di scandaloso; le perplessità non si sollevano per il fatto che un editore digitale si quoti in borsa, ma per il modello di business che ha guadagnato l’entusiasmo degli investitori. La strategia di scelta degli argomenti, i requisiti di quantità e di qualità dei contenuti, si muovono nella direzione opposta a quelli del New York Times.
La direzione editoriale di Google. Il vero direttore editoriale di Demand Media è Google. D’altra parte nel corso del 2010 Google si è confermato anche come la principale fonte di reddito, contribuendo con il 26% del fatturato complessivo. Il dispositivo che garantisce la sopravvivenza di Demand Media è una piattaforma software che individua gli argomenti sui quali devono essere realizzati testi e video; presenta queste informazioni a circa 13.000 collaboratori freelance; raccoglie i contenuti prodotti, genera il loro titolo e i loro metadati; infine li distribuisce sulle pagine di pubblicazione proprietarie e dei partner.
La selezione degli argomenti avviene esaminando il numero di query imputate dagli utenti nel motore di ricerca di Google. Anche senza disporre di uno strumento software sofisticato, chiunque può controllare i temi più consultati dal pubblico americano con il servizio di Google Trends, verificando velocità di cambiamento e intensità dei flussi di interesse per i vari argomenti. Le parole chiave che inquadrano gli oggetti di cui si deve parlare vengono segnalate a migliaia di redattori tramite la piattaforma Demand Studios. In media un video viene ricompensato con 20 dollari, un articolo con 15 dollari, una revisione editoriale con 2 dollari e mezzo, il controllo delle informazioni postate da altri autori con 1 dollaro. La condizione della retribuzione è che i pezzi vengano prodotti con la massima tempestività, perché i trend di interesse per molte keyword hanno breve durata e la loro potenzialità commerciale deve essere sfruttata prima che l’attenzione sia catturata da altri temi.
In cima al ranking di Google. In questo modo Demand Media produce circa 5700 articoli nuovi ogni giorno, e si laurea come principale fornitore di video per YouTube. La scelta delle keyword e la formattazione dei contenuti viene standardizzata in modo da assicurare il miglior ranking possibile nel listato dei risultati di Google. Il 46% dei testi pubblicati da Demand Media sfila nella prima pagina di risposte per le keyword indicate.
Titoli esca e decaloghi. Una porzione della piattaforma software di Demand Media si preoccupa di assegnare titoli efficaci agli articoli e ai video creati dai collaboratori. La tecnica del “linkbaiting” consiste nella formulazione di titoli capaci di catturare i clic degli utenti e di innescare la condivisione del pezzo tramite la promozione spontanea sui social network. Per esempio, gli articoli che vengono pubblicati sulla testata più letta, eHow.com, nella sezione “Alimentazione” hanno questa forma: How to Make Buttermilk from Milk; How to Bake Salmon; How to Choose a Good Scotch, ecc. Il loro contenuto è introdotto da poche righe di prefazione seguite da decaloghi di un semplicismo disarmante. Naturalmente le pretese divulgative non si fermano alla preparazione del salmone affumicato, ma si estendono all’educazione dei figli, alla disciplina nelle aule scolastiche – affiancati con disinvoltura dai metodi per testare la connessione internet o per trovare uno shampoo per i capelli grassi. Come insegna Mosè, il pubblico ama trovare regole di comportamento chiare in forma di elenco puntato.
Crescete e profilatevi. Con questa strategia Demand Media «conquista 86 milioni di visitatori unici al mese», che leggono 550 milioni di pagine sui siti del network Demand Media o dei partner. Il solo eHow.com attira 69 milioni di utenti unici al mese. Sono numeri importanti, perché il fatturato della società è garantito dalla possibilità di assicurare agli inserzionisti che la pubblicità collegata ai contenuti sarà conosciuta da un pubblico numeroso e profilato. La scelta dei trend di Google come direzione editoriale serve a chiarire che il valore del contenuto coincide con la sua capacità di veicolare l’attenzione sulle offerte pubblicitarie correlate. Demand Media si propone come un campione dell’economia dell’attenzione, confezionando un prodotto che permette al contenuto editoriale e al messaggio promozionale di trovarsi già pronti sul luogo dove sta per spostarsi l’interesse informativo delle masse.
Mai visto un centesimo di utile. Demand Media dichiara di essere passata da un guadagno di 10,56 dollari per ogni mille pagine viste del 2008, agli 11,81 dollari del 2010. Amazon guadagna circa 190 dollari per ogni utente unico, Google 24; Demand Media circa 1,60. Nonostante la spregiudicatezza del modello di business, Demand Media non ha mai raggiunto il pareggio di bilancio dalla sua fondazione nel 2006. L’anticonformismo che trapela dalla configurazione editoriale dell’azienda e dalle dichiarazioni dei suoi manager ha sollevato reazioni ambigue dal mondo della finanza e da quello degli altri editori. Le investigazioni della SEC hanno prodotto un rinvio del collocamento azionario da dicembre 2010 a gennaio, senza comunque fugare i dubbi sulla possibilità che la società raggiunga prima o poi il break-even.
Un’emergenza rifiuti anche sul web. Al contempo la polemica contro la bassa qualità dei contenuti di Demand Media ha abbandonato le colonne dei blogger indipendenti per contagiare anche testate come il Wall Street Journal, il New York Times, e soprattutto un partner sfuggente come Google. Metafore poco garbate come “spazzatura”, “inquinamento”, ed epiteti meno educati, si sprecano per qualificare i contenuti prodotti da Demand Media. L’accusa è quella di realizzare testi e video copiando ogni tipo di materiale raccattato in giro per la rete, troppo in fretta per aspirare a qualunque approfondimento – e senza alcuna strategia editoriale per offrire qualche spunto di interesse.
Matt Cutts, uno degli ingegneri responsabili della qualità di Google, ha dichiarato il 21 gennaio che il motore di ricerca «sta elaborando un algoritmo che eliminerà lo spam» prodotto dalle content farm come Demand Media. Per converso, nel primo semestre del 2010 le voci di un interesse di Google all’acquisto di Demand Media erano piuttosto insistenti. L’operazione era interpretata come la risposta all’acquisto da parte di Yahoo! di Associated Content, un’azienda con lo stesso modello di business e una forza di produzione di 1100 nuovi pezzi ogni giorno. Persino il «New York Times sembra essere stato sul punto di comprare Demand Media nel 2006»: l’operazione è saltata per l’opposizione del Ceo Janet Robinson.
Demandare o non demandare al pubblico? Questo è il problema. I protagonisti del mercato dei media, come Google, e le testate come il New York Times, sembrano catturati nella contraddizione tra la condanna per i contenuti-spazzatura e la seduzione di un modello di business che pare poter rompere la situazione di stallo in cui si trova l’editoria elettronica. Il fascino peraltro deriva solo dalla spregiudicatezza del modello – non certo dagli utili, che finora sono mancati.
L’accondiscendenza totale verso gli interessi del pubblico, la tempestività nell’intercettare la sua attenzione, la precisione nella corrispondenza tra la richiesta informativa del pubblico, l’offerta di contenuti e i messaggi pubblicitari – sono gli ingredienti che hanno sollevato gli entusiasmi degli investitori e che nel corso del tempo hanno sedotto i brand dei media e del giornalismo: gli stessi che ora non risparmiano critiche agli effetti di questo modello. Lo scorso 7 febbraio all’evento media “Signal LA” l’a.d. di Mahalo, un’altra content farm da 1100 nuovi pezzi al giorno, ha accusato di ipocrisia tutti coloro che lamentano l’inquinamento di informazioni inutilmente replicate, prive di approfondimenti e di controlli.
Calacanis ha sostenuto che anche il prestigioso Huffington Post si comporterebbe nello stesso modo, riciclando pezzi altrui nell’80% della sua offerta di contenuti. In ogni caso l’Huffington Post è stato acquistato la settimana scorsa da AOL, che vanta una forza di produzione di 1700 nuovi pezzi al giorno. Il New York Times a sua volta si è attrezzato rilevando About.com, capace di macinare più di 850 nuovi pezzi al giorno.
Gli anticorpi del pubblico. La tentazione di abbandonare la responsabilità dell’informazione on-line ai flussi di attenzione del pubblico è molto elevata. Non si è ancora consolidato un modello di business adeguato all’autosostentamento del giornalismo di approfondimento su internet; la spinta ad abbandonare la ricerca di una soluzione funzionante, in favore di un compromesso che equipari contenuti e finanziamento pubblicitario, sostiene la marcia trionfale di Demand Media nelle trattative borsistiche. Vale la pena di chiedersi cosa ne sarà dell’informazione una volta che lo spazio della ricognizione critica e quello della comunicazione commerciale saranno formulati con lo stesso codice. Può essere di conforto l’evidenza che il pubblico stesso si sta tutelando dalle secrezioni inquinanti delle content farm con una “frequenza di rimbalzo” dalle loro pagine tanto alta da rendere poco redditizi gli spazi pubblicitari che accompagnano le notizie: in altre parole, gli utenti abbandonano il testo o il video in pochi secondi, senza interagire con alcun correlato e quasi senza leggere nulla.
Replicanti e algoritmi. Questa forma di rifiuto per l’informazione ridondante e superficiale è la causa dell’assenza di utili nel bilancio di Demand Media; potrebbe apparire anche come il sintomo di una rivendicazione di rispetto per la propria coscienza critica da parte degli utenti, o una forma di selezione naturale imposta dalla Rete a chi trasgredisce le condizioni di pertinenza e di economia della comunicazione. Queste conclusioni sono troppo ottimistiche per un mondo che vive comunque di re-tweet, di like e di re-post; ma dovrebbero almeno evidenziare che anche l’apparente linearità del modello di Demand Media nasconde falle non meno pericolose di quelle che minacciano il giornalismo classico. Al momento la Borsa sembra assegnare maggiore fiducia all’algoritmo di ricognizione sui trend dell’interesse, rispetto all’evidenza dei dati di bilancio. Se la promessa di Matt Cutts si avvererà, la sparizione dei pezzi delle content farm dalle risposte di Google sferrerà un colpo micidiale al modello di Demand Media. L’algoritmo del motore di ricerca ridimensionerà le pretese dell’algoritmo che seleziona argomenti, autori, titoli, pagine di pubblicazione. Ma questo significa che la battaglia per l’orientamento della coscienza critica, e per la costruzione dell’episteme contemporanea, diventerà sempre più una guerra selettiva di algoritmi?
*fondatore di pquod