Quattro macchine di scorta pronte nel cortile. Per allinearsi hanno alzato una nuvola di ghiaia, che da lunghi attimi sta imprigionando l’aria. Ghedini e Longo sono arrivati in villa, ora hanno raggiunto B. nello studio per gli ultimi dettagli. Il telefono che squilla senza tregua dalle sette di mattina costringe il centralinista a un inatteso smistamento di solidarietà. Tutti vogliono parlare con B., partecipare, lasciare almeno una traccia, «gli dica almeno che ho chiamato, per favore», prima che una storica giornata abbia inizio e dia fine a ogni sentimentalismo. C’è sempre stata una gara serrata a sentirsi gli eletti del Capo, a entrare nelle sue grazie, a considerarsi prima fila rispetto agli strapuntini di favore e il momento per esserci finalmente è arrivato. Chi riesce a parlargli questa mattina, è per sempre.
«Dovete lasciarmi un po’ di briglia sciolta. Non voglio ostacolare il vostro lavoro, figuriamoci, ma sento che è arrivato il momento di uscire allo scoperto. Lo capisci Niccolò? Voglio poter parlare, spiegare, raccontare a tutti che è una montatura colossale, che della mia vita privata dispongo solo io, che non ho commesso reati, che non pago le donne, tanto più se minorenni. Ok?»
Seduti sulle poltrone dello studio, Ghedini e Longo lo guardano. Si guardano. La strategia difensiva è tracciata, ma la variabile B. incombe sui codici come una ghigliottina sul condannato. Chiedergli temperanza sembra un’operazione senza speranza, comunque Ghedini ci prova: «Guarda presidente, qui si tratta di portare a casa il risultato e non vorrei che qualcosa potesse innervosire i giudici. Tu sei un uomo che ha fatto della comunicazione la sua arma vincente, ma qui siamo in un’aula di giustizia, troveremo un ambiente molto ostile, direi perfino prevenuto nei tuoi confronti, ogni tua parola potrebbe essere male interpretata. In ogni caso, lo sai, ci rimettiamo al tuo senso delle cose. Generalmente ci prendi, quindi…»
Finisce sempre così, con B. che sorride e gli altri che si tengono i dubbi.
«Dottore, ci siamo. E’ ora». Il rintocco di Alfredo spalanca ufficialmente il capitolo numero uno del giorno 6 aprile, lunedì. Apre il soprabito blu e con mossa rapida e confidenziale avvolge il dottore. Sono le otto, B. si infila nella seconda macchina, destinazione Milano, palazzo di Giustizia. Non ha letto i giornali, si è persino dimenticato della rassegna stampa, è felice della notte appena passata, probabilmente l’ultima nella quale è tornato a essere un uomo dolorosamente inquieto.
Il cancello automatico si apre, le quattro berline filano silenziose verso la città. La mattina è così luminosa che l’idea di guardare fuori dal finestrino diventa per B. un’attrattiva quasi fanciullesca, al punto da sotterrare sotto una coltre di apparente irresponsabilità qualunque altra incombenza. Guardare alberi e cose, che un tempo scorrevano invisibili, è come riprendere una confidenza persa da troppo tempo. Sembra l’ultima sigaretta del condannato, B. fa scendere due dita di finestrino sotto gli occhi degli uomini della scorta annusando l’aria della primavera milanese.
Ma cos’è Milano per B. o forse dovremmo dir meglio, chiedendoci cos’è B. per Milano, per poi risponderci poco o nulla, perché andrà detto, una volta e per tutte, che i milanesi, quelli un po’ veri, il tipo non l’hanno mai troppo considerato dei loro, avendone l’idea del parvenu, dell’acquisito. Non ci si ricorda di B. alla Scala in pompa magna ma anche in pompa semplice, non ci si ricorda di B. all’esclusivo circolo del Giardino, non ci si ricorda di B. – e questo probabilmente è il dolore più profondo per chi gli crede – in tribuna a San Siro a tifare Milan.
Sì, avete capito bene, B. non ci veniva a San Siro, il calcio probabilmente gl’interessava poco o punto, della sua famiglia allargata semmai era proprio il Confa l’inguaribile rossonero che non perdeva una partita casalinga dei rossoneri. E che un giorno dell’86, a B. venga in mente di papparsi anche il Diavolo ridotto maluccio da Farina, non è altro che la conferma del suo occhio lungo, lunghissimo sulle prospettive che quel magnifico veicolo sportivo poteva offrirgli. Pagandolo l’elemosina di sei miliarducci delle vecchie lire (un’Irpef non pagata) ma trascinandolo poi sulle vette del mondo per una ventina d’anni.
Se il Milan è un paradigma felicemente amaro che però vale – prendi una cosa che ti interessa poco e fanne la più bella della storia – dovremmo proiettare in quest’ottica anche il Paese? Giudicate voi. Quel che si sa è che Milano non è la sua storia e forse neanche a B. dispiace poi tanto, rintanato com’è stato tutta la vita nei suoi bunker brianzoli. E non ci poteva essere contrappasso più crudele, per un non-milanese come lui, che una brutta sera di dicembre, a dieci giorni dal Santo Natale, un mezzo matto gli spiaccicasse un Duomo sulla faccia.
Ora che le macchine di scorta stanno per entrare su Corso Ventidue Marzo da Piazza Cinque Giornate – il Palazzo di Giustizia a poche centinaia di metri – B. sembra essere a un bivio: conservare quel piccolo, straordinario tesoretto di umanità, condensato in una notte, l’idea che un’altra vita avrebbe anche potuto esserci, o riprendere lo stato di onnipotenza di uomo massimamente odiato?
«Presidente, presidente, di qua, guardi di qua, presidente da questa parte, presidente sorrida, presidente che cosa prova…?»
Si apre la porta, i fotografi sommergono ogni pensiero, decine di telecamere si infilano scriteriatamente tra le rughe di un uomo potente.
Silvio Berlusconi, imputato.