La tentata conquista di Parmalat da parte dei francesi di Lactalis è solo l’ultima di una lunga serie e ha una caratteristica nuova: investe un settore, quello lattiero che solo in parte si è globalizzato. Quello fresco è rimasto local, quasi mai oltrepassa i confini nazionali. Eppure l’Italia, per colpa anche delle famose quote latte, ne produce troppo poco per il suo fabbisogno. Per fare i formaggi di bassa qualità e prodotti industriali deve importarlo e aprire le porte a milioni di quintali di latte del tipo a lunga conservazione, che non ha nazionalità. Siamo il paese europeo con il più alto deficit di consumi, ogni anno consumiamo 180 milioni di quintali di latte ma dai nostri impianti ne escono solo 110 milioni. I settanta che mancano arrivano dall’estero. Una Parmalat transalpina finirebbe per accrescere lo squilibrio. Per questo tremano gli allevatori che forniscono il gruppo di Collecchio. Questa probabilmente è la vera posta in gioco.
Intorno al latte c’è un giro d’affari superiore ai 20 miliardi di euro l’anno, secondo alcune stime dell’Ismea, l’istituto per i servizi e il mercato agricoli. Sono oltre 40 mila le aziende, 1,8 milioni le vacche da latte. In un decennio si sono perse oltre 27 mila imprese, ma i livelli produttivi sono rimasti intatti perché è accresciuta l’efficienza e perché le quote sono aumentate. Il 60% della produzione arriva da aziende cooperative (l’80% da quelle aderenti alla Confcooperative, il 18 da quella della Lega, il 2 dall’Agci), il resto da singoli produttori che vendono all’industria. È un modello fortemente italiano, con pregi e difetti. Padano, in senso letterale. Quasi il 90 per cento del latte commercializzato arriva da Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte.
Modello italiano, fatto, dunque, anche di “nanismo” aziendale. Le aziende nostrane hanno in media 27 vacche, in Francia e Germania ne hanno 37 e in Gran Bretagna 160. Così in Italia il 41 per cento del patrimonio è detenuto da poche grandi imprese (il 7 per cento del totale) mentre il resto è diviso tra l’82 per cento delle piccole o piccolissime imprese.
Anche per queste ragioni il latte italiano costa di più. Siamo in vetta alla classifica tra i paesi europei: registriamo prezzi tra i 37 e i 39,5 centesimi al litro, contro i 32-35 della Baviera e i meno di 30 della Francia. Pesano diversi costi di produzione: gli alimenti per il bestiame (quasi la metà dei costi di gestione) e la bolletta energetica di circa il 30% superiore alla media europea. Per fare il parmigiano vanno seguite regole ferree nell’alimentazione delle vacche. Per questa ragione il prezzo di un litro di latte destinato al parmigiano sale a oltre 40 centesimi.
Ma il parmigiano, il grana padano, il gorgonzola, l’asiago, la mozzarella di bufala sono il made in Italy dell’industria alimentare. La contiguità tra produttore e trasformatore è importante e la discesa dei francesi su Parma rischia di provocare seri contraccolpi, oltre che effetti sull’occupazione. Quello della qualità è un problema che i tedeschi non hanno, non hanno prodotti D.o.p., lungo la filiera lattiero-casearia. Esportano più latte di quanto ne consumino.
La Parmalat di Enrico Bondi è una public company dalla cassa robusta e che nel rapporto con le stalle della Bassa si comporta come una multinazionale. Il latte base è una commodity da acquistare ai prezzi minori possibili e non importa dove: a Reggio o in Baviera. L’azienda di Collecchio con i suoi marchi controlla il 34,8% del mercato del latte uht, il 25,6% del latte pastorizzato, il 5,7% degli yogurt e il 15% dei succhi di frutta. Bondi ha cambiato radicalmente il modello gestionale e il rapporto con la filiera, che resta centrale in un mercato del lattiero-caseario negli ultimi anni stabile a 15 miliardi di euro di fatturato aggregato. Ai tempi di Tanzi l’azienda acquistava un buon 60% del latte in Italia. Il resto all’estero. L’attuale gestione ha ribaltato le proporzioni e l’Italia secondo alcune stime non supera il 40 per cento. Non esistono dati ufficiali in materia visto che questa informazione era sotto vincolo di riservatezza.
Comunque sia, questa propensione a comprare il latte all’estero è anche l’effetto della rifocalizzazione. Bondi è tornato ai succhi di frutta e soprattutto al latte a lunga conservazione, per il quale la provenienza non è importante. A Collecchio hanno le tecnologie per farlo bene. È chiaro però che così la filiera non tende a integrarsi, ma piuttosto a sfilacciarsi. Con il risultato che i produttori di latte intorno a Collecchio non conferiscono il loro latte alla Parmalat, ma ai caseifici privati e alle cooperative che con esso producono il parmigiano reggiano. Negli anni Novanta i grandi produttori di latte andavano a casa Tanzi il sabato pomeriggio, accolti nel salotto in rigoroso ordine geografico (prima i parmensi, quindi i piacentini, poi gli altri), e insieme al cavalier Calisto fissavano il prezzo. Adesso il metodo di acquisto è cambiato: i funzionari di Parmalat praticano prezzi differenziati, a seconda del contenuto proteico e del grasso contenuto nel latte. L’italianità non è più il fattore caratterizzante, almeno a Parma. A Roma e a Milano non la pensano così.