Che fine ha fatto Manu Chao?

Che fine ha fatto Manu Chao?

Che fine ha fatto Manu Chao? Il suo ultimo album in studio, “La Radiolina”, è del 2007. Nel 2008 era apparso nel documentario di Emir Kusturica dedicato a Maradona, dove appoggiato a un muro di strada di Buenos Aires aveva cantato “La Vida Tombola” davanti a un sorpreso e commosso Diego Armando. E poi? Intervistato di recente Manu Chao ha confessato di non fare mai piani per più di sei mesi: «Non so che mondo sarà tra un anno, quindi è inutile pianificare troppo. Preferisco essere libero di muovermi». A marzo del 2001 giusto dieci anni fa il musicista intratteneva a lezione gli studenti di Scienze politiche della Statale di Milano parlando di mafia e politica, dittature sudamericane e oppositori, di Bush e di ecologia, e delle piccole storie clandestine di speranza come gli operai di Buenos Aires che autogestiscono una fabbrica che la sera ospita concerti, e la protesta degli indigeni in Bolivia che bloccarono la Panamericana con delle pietre. Il 21 giugno in piazza del Duomo Manu Chao festeggiò i suoi 40 anni con un concerto. Il sindaco Albertini era preoccupato per l’eventualità di dichiarazioni politiche. Aveva ragione perché sul palco salirono dieci tute bianche anti-G8, interrompendo volutamente lo spettacolo e invitando tutti a partecipare all’evento di Genova.

Dieci anni dopo, il neosindaco di centrosinistra non ha avuto problemi perché Manu Chao è in tour per l’Europa in attesa di volare ad agosto negli Usa per una serie di concerti. Ma soprattutto perché il musicista, di madre basca e padre galiziano, nato a Parigi il 21 giugno del 1961, dopo la grande sbornia della stagione da icona no-global, quando l’allora ministro degli esteri Renato Ruggiero fece il nome del cantante come possibile mediatore per aprire il dialogo tra il popolo di Seattle e gli organizzatori del G8, ha preferito tornare a fare musica, a modo suo s’intende, sempre a sostegno alle cause del mondo latinoamericano. Non sempre però bene accolte: l’anno scorso ha rischiato l’espulsione dal Messico per «ingerenze politiche» e per aver definito «terrorismo di Stato» un intervento della polizia messicana di tre anni prima alla periferia di Città del Messico.

Intanto però il tempo è passato. Bob Dylan ha fatto 70 anni e c’è stata la corsa, non troppo convinta a dire il vero, per tentare di fare l’ennesimo ritratto-bilancio che non fosse la solita stanca agiografia. Poche le cose riuscite, più sul versante indie che mainstream. Sono invece solo cinquanta gli anni per Jose-Manuel Thomas Arthur Chao, universalmente conosciuto come Manu Chao e la cosa è passata invece inosservata, forse perché cinquant’anni Manu Chao non ne dimostra. Continua a indossare cappelli andini e maglie da calcio, canottiere e scarpe da ginnastica e ad andare in giro per il mondo.

In Italia è tornato qualche volta dopo il G8 (anche per Don Gallo) ma dopo Genova non gli è stato facile esibirsi. Nel 2005 in una intervista per Le Monde Manu Chao ha raccontato che «in Italia regna un clima di assedio e condizionamento. Quando mi esibisco, devo stare attento perché dopo il G8 tutti i colpi sono permessi. In venti anni di carriera, i miei concerti non hanno mai provocato alcun incidente, ma quando suono in Italia i poliziotti sorvegliano i luoghi dove mi esibisco. In Italia bisogna sorvegliare i camion, evitare di ritrovarsi con un chilo di cocaina nascosta nel materiale, non rispondere ai poliziotti camuffati da giornalisti nelle conferenze stampa».

È lontano l’entusiasmo del 1999 quando Adriano Celentano volle ospite in Rai per la sua “Francamente me ne infischio” quel piccolo performer cresciuto ascoltando lo swing di 24mila baci e Renato Carosone, “un genio assoluto”. Per Manu Chao era stata un’eccezione: «Non vado mai in tivù, perché la televisione è un’enorme macchina di menzogne. Se per una volta, ho fatto uno strappo alla regola, è perché lì era presente il leggendario Compay Segundo, che per me è l’artista più importante del mondo». Al successo di “Clandestino”, dodici canzoni in spagnolo, una sola in inglese, una in portoghese e due in francese, Manu Chao era arrivato senza passaggi televisivi e promozione del marketing. Gli avevano aperto la strada non volendo i vari Ricky Martin e Iglesias jr., Jarabe De Palo e i cubani del Buena Vista Social Club.

Vendette quattro milioni di copie per il suo primo album da solista, cifre mai raggiunte con La Mano Negra, la band che aveva fondato sul finire degli anni Ottanta e che ha avuto molto successo in Francia. La Mano Negra era un ensemble giramondo, una barriera di suono alzata con ogni tipo di strumento, trombe, sax, percussioni, pianoforti, flauti, organi, un mix esplosivo di rock ‘n roll, ska, punk, swing, reggae.

Lontanissima oggi nei ricordi la stagione dei primi centri sociali occupati con il concerto evento a Roma al Forte Prenestino della Mano Negra. Eppure è proprio con il suo storico collettivo che Manu Chao si è creato una autorevolezza da palco, una sorta di green card, molto più affidabile e potente di qualsiasi proclama, che gli ha permesso di passare indenne questi dieci anni, intraprendendo la carriera da solo, cambiando base da Parigi a Madrid e Barcellona, scartando anche l’inevitabile critica di essersi venduto, di aver fatto i soldi con la causa no-global. Ora viaggia con un altro collettivo, i Radio Bemba Sound System, altro collettivo, gira sempre il mondo e partecipa a progetti «cantando il disincanto e cercando di farlo con incanto». Ma la grande onda è passata e anche Manu Chao è diventato adulto.

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