RIMINI – Hai voglia a dire che Formigoni è invecchiato. Hai voglia a sfottere le camicie hawaiane, il piglio un po’ egotico, o a ripetere le barzellette che – si dice – il Cavaliere racconti generosamente sul suo conto. Al Meeting di Rimini, dopotutto, si muove sempre da padrone di casa, e come tale lo riconoscono alla fine tutti. Anche i frondisti. Anche quelli che «Lupi però sta facendo bene». Anche quelli che «dopotutto Alfano potrebbe essere la risorsa giusta». Alla fine, il padrone di casa, quello che può citare con sicurezza edizioni del meeting di vent’anni fa, è insomma Roberto Formigoni. Il “suo” meeting, del resto, lo omaggia con le icone e in una grande foto che ha più di vent’anni, in uno dei corridoi principali, lo ritrae giovanissimo, barbuto e sobrissimo nel vestire: alle spalle di un Giovanni Paolo II nel pieno delle forze. Il meeting, il suo movimento, è insomma il brodo di cultura naturale in cui nasce e si sviluppa il Formigoni che conosciamo per la quinta volta Presidente della Regione. E nel Palazzo della Regione – il vecchio Pirellone come il nuovo “Formigone” – l’attitudine che ha consolidato è un po’ la stessa: passa il Celeste, tutti sull’attenti.
E come capita quando ci si sente sicuri, a volte, si sbaglia un po’ la misura. A Roberto Formigoni, tra la spiaggia di Rimini e la Fiera dove si svolge il Meeting, è successo in questi giorni in cui l’Italia e il Pdl sono una palude che ribolle di preoccupazioni, auspici, ansie e bisogno di tanti miliardi da mettere in manovra per essere tranquilli per un po’.
Del fine cena di mercoledì sera vi abbiamo già raccontato: un Formigoni rilassato e piacione avvicina una tavolata di giornalisti e dice spassianatamente quello che pensa. Accetta per assodato il contesto di sfondo: la fine del berlusconismo imminente, anticipata da una progressiva scomparsa di Berlusconi negli immaginari. Si mostra arrabbiato per un caso-Minetti che è costato un sacco di voti,«peggio di Ruby». Restituisce uno scenario chiaro, nel giudizio: se Berlusconi non annuncia al più presto e «a reti unificate» che nel 2013 cederà definitivamente il passo. «Andiamo a fondo, così, non vinciamo più». Al tavolo ci sono tredici giornalisti, di varie testate. Dodici lavorano per la “carta”, e solo chi scrive invece lavora nell’ “online”. Il vantaggio competitivo insito nel mezzo internet in questi casi è enorme: in pochi minuti si può essere a disposizione di tutti i lettori. Ed è davvero difficile che un giornalista, davanti a una notizia, stia fermo: dopo tutto basta un telefono cellulare e un collega sveglio e reattivo, fosse anche l’una di notte.
A una tavolata di dodici giornalisti, tuttavia, maneggiamenti del genere non passano inosservati, e qualcun’altro prova ad attivarsi: magari trova qualcuno in redazione, e magari fa perfino in tempo a trovare spazio sulla carta a pochi minuti dalla chiusura tipografica.
L’altra notte – e scusate se ci siamo dilungati in meccanismi di categoria – è insomma andata proprio così: a notte esce un articolo in Rete, su Linkiesta, e la mattina sulla carta arriva in tempo solo Repubblica. E come capita spesso, in questi casi, quel che si è raccontato alla sera, la mattina non piace più al “narratore”. Tanto che dopo una giornata concitata – il meeting va avanti, e il tempo per chiudere la manovra si fa ogni giorno più corto – si cerca la via per il rattoppo escludendo ovviamente la migliore: e cioè confermare il proprio pensiero, non privo di lucidità e di qualche dato empirico.
E invece no: Formigoni precisa e smentisce di aver detto frasi ascoltate da una quindicina di persone. Poi fa una conferenza stampa sul cristianesimo in politica e alla fine della stessa convoca i cronisti in sede riservata nella Fiera – più o meno gli stessi che erano a cena il giorno prima –, per proporre una nuova interpretazione del suo pensiero. Un’interpretazione naturalmente più istituzionale: che trascura i passaggi sulla Minetti e l’uscita di Berlusconi dagli immaginari; che chiama il Cavaliere una risorsa e dice che deve andare avanti per il bene dell’Italia; che ripete molte e molte volte che «se e quando Berlusconi deciderà» di lasciare il suo successore dovrà uscire da un confronto vero, quasi che in politica i grandi cambiamenti non avvengano quasi mai per volontà di chi rinuncia al potere, ma quasi sempre per mano di chi se lo prende. Non manca, Formigoni, di ammettere le sconfitte elettorali come il segno di una sfiducia nel patto sociale fondativo che fece forti i produttori e il ceto medio del nord («Soprattutto a Milano»), ma certo la musica si fa melodiosa rispetto al rock duro sentito qualche ora prima sulla spiaggia di Rimini.
Tutto si smussa, si aggiusta e si addomestica: o almeno ci si prova. Nascondendosi dietro all’abusato schema della conversazione «confidenziale», della fiducia riposta nei giornalisti (il cui core business resterebbe raccontare la realtà), e così via. Sia chiaro, non ci piace prenderci troppo sul serio, né troppo serie erano le vicende raccontate da Formigoni. Non si tratta di guerra, di stragi, di morti, e neppure di bilanci falsificati o di aziende fallite. Si tratta però del futuro della classe politica italiana e di quel che si muove al suo interno: cose che è un diritto sapere e raccontare. Il dopo-Berlusconi è una terra straniera e conoscere davvero il pensiero e perfino le “emozioni politiche” dei protagonisti di questa stagione può avere quasi un valore civile, ben più importante dei narcisismi giornalistici di cui siamo in tanti ammalati. Si tratta insomma del rapporto tra il potere e chi lo deve raccontare, e della brutta abitudine di pensare che si possa contare «su un aiuto», come ha detto Formigoni. A scanso di equivoci, in questo contesto, va poi aggiunto che non è certo solo Formigoni o l’ambiente del meeting a vivere di questa ambiguità: sono tanti politici di ogni coloro, tanti uomini di economia e business e finanza e industria.
Nella versione del pomeriggio, dopo tutto, c’è solo una variazione saliente, in fondo, e sono i toni sul potenziale odierno di Berlusconi. Ieri era finito, deva finire per il bene di tutti, oggi è una risorsa. Nel mezzo c’è stata una telefonata: tra Berlusconi e Formigoni, che – nella versione ufficiale – avrebbe consentito a Berlusconi di essere solidale con Formigoni travisato dalla stampa. «I rapporti tra noi sono ottimi e abbondanti» ha detto sempre Formigoni. Si diceva così del rancio: quando a bassa voce, senza farsi sentire, si riconosceva che la pietanza – diciamo così – non era un granché.