Post SilvioLa terza Repubblica non devono fondarla i giudici

La terza Repubblica non devono fondarla i giudici

Questa seconda Repubblica tramonta dove era nata: nelle Procure della Repubblica. Era iniziata sulle ceneri dei processi ai grandi partiti di governo della Prima Repubblica; finisce schiacciata dai fallimenti politici della classe dirigente egemone, dai procedimenti giudiziari bipartisan di cui leggiamo tutti i giorni qualcosa in più. Berlusconi suggerisce a Lavitola di non tornare in Italia. Filippo Penati è indagato anche per corruzione sulla questione Serravalle. Berlusconi è reduce da Ruby, Mills, il lodo Mondadori ecc. Il Partito Democratico vede l’affaire-Penati ingrossarsi fino ad arrivare vicino al cuore del suo sistema economico-finanziario: quel mondo della cooperazione rossa che era già finita nell’occhio del ciclone nell’estate dei furbetti, quel 2005 a cui molte piste sembrano oggi riportare. Non serve entrare nel merito delle vicende, né lanciarsi in equiparazioni improbabili e tutte da confrontare con l’esito di processi che puntualmente non finiscono con una sentenza definitiva, per comprendere con esattezza un clima: l’agenda del paese, della politica, del rinnovamento della classe dirigente, la dettano le azioni delle procure, dei magistrati della Repubblica. Ci sono due modi, entrambi partigiani, di interpretare i dati di fatto.

Il primo vede solo la “questione morale”: in un paese tutto fatto di corrotti, in cui “politico” e “ladro” sono sinonimi, l’azione dei magistrati è l’unica igiene possibile, data l’inaccettabilità di ogni auto-riforma da parte della classe dirigente, a partire dal ceto politico. Per questa visione Silvio Berlusconi è esclusivamente il più grande fattore criminogeno che la scena politica italiana abbia mai conosciuto, e il centro-sinistra una forma minore della stessa modalità etico-politica. Il consenso che il blocco berlusconiano ha ricevuto per decenni, in questo quadro interpretativo, interroga la moralità del paese che lo vota, da un lato, e l’insufficienza collusiva delle opposizioni, dall’altro. I magistrati – come si ripeteva nei primi anni Novanta – “sono la parte migliore della classe dirigente del nostro paese, fanno solo il loro lavoro”. Insomma, il potere giudiziario esercita una supplenza politica che in nessun modo vorrebbe, e alla quale è costretta per il bene del paese.

Il secondo vede solo la “questione Giustizia”. Per questa seconda tendenza interpretativa, ovviamente, il problema è tutto nei Tribunali della Repubblica. I magistrati fanno tutti politica attivamente, solo che non passano dal voto del popolo. I magistrati violano regolarmente la Costituzione ma nessuno li processa mai, perché sono la vera Casta del paese. I magistrati odiano Berlusconi perché lui ha provato a portarli a una più esatta dimensione, e odiano quel pezzo di centrosinistra che riconosceva il problema e magari perfino un’esigenza di riforma. In questo modo altrettanto manicheo di rappresentare la realtà, i magistrati sono tutti uguali, tutti corrono nella stessa direzione. Tutti lavorano poco, e così via.
Così, tra spinte anti-legalitarie e spinte forcaiole, ci pare sia vitale una posizione diversa. Una posizione che inizi da subito, oggi che quest’epoca sta evidentemente tramontando, a riconoscere una realtà fatta di sfumature, di colori e di contrasti: non dei soli “bianco e nero” di cui si nutre ogni manicheismo. Tanti anni di inchieste giudiziarie intrecciate alla politica ci consegnano un quadro sfaccettato, complesso, che non si può risolvere con la tifoseria.

Silvio Berlusconi non è ovviamente stato un fattore “legalizzante” della politica italiana, ed ha anzi reso pubblica, quasi violenta una risalente fatica ad accettare che la legge sia uguale per tutti. Non era la persona giusta per riformare la Giustizia italiana e nemmeno mai ci ha davvero provato: forse perché la prima delle riforme – quella che porta i processi penali a tempi ragionevoli nella definizione del giudizio – è quella che meno gli sarebbe piaciuta, da pluri-imputato. Il conflitto d’interessi atavico, fondativo della sua stessa attività di politico, è cresciuto e ha prosperato: per tante ragioni, ma anzitutto perchè lui non ha mai avuto nessun interesse a risolverlo da liberale. Né si può negare che una politica poco trasparente e continuamente giocata sui bordi del lecito non sia una prerogativa del Premier e del suo campo: non servivano le inchieste di questi giorni per sapere che anche il centrosinistra della Seconda Repubblica ha i suoi scheletri nell’armadio. Un problema di moralità e legalità della classe politica, insomma, c’era e c’è. C’era quando morì la prima Repubblica e c’è ora che langue la seconda.

Eppure, proprio quando si occupa di politica la magistratura oltrepassa spesso limiti che solo invalicalicabili nel novero dei paesi occidentali cui ci piace appartenere. La lettura regolare, anticipata di atti segretati, di inchieste ancora in corso, di intercettazioni talora del tutto irrilevanti è una cosa che dovrebbe essere preclusa a tutti, tranne che agli aventi diritto secondo le leggi vigenti. E invece sono spessissimo di pubblico dominio. Altrettanto spesso, così, i processi si celebrano sulle pagine dei giornali, in televisione, in Rete, mentre non hanno mai il tempo di arrivare a maturazione nelle sedi proprie, cioè le aule. L’obbligatorietà dell’azione penale, che traveste la necessaria discrezionalità da equità assoluta, è un principio costituzionale che va discusso: mentre ogni volta che viene citato scatena le proteste immediate della magistratura. Lo stesso vale per la separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti: è così nell’ordinamento della maggioranza degli stati civili, ma in Italia è sempre un attentato alla libertà e alla democrazia. Anche il costume, tutto italiano, di fare politica appena dismessa la toga – di solito usufruendo per di più di lunghe aspettative che certo non fanno bene a un corpo in cronico sotto-organico – è un’abitudine che in futuro sarebbe bene perdere, perché certo non rafforza l’immagine di indipendenza e terzietà di un potere che da quello politico dev’essere nettamente distinto.

I semi di queste storture, da ovunque si guardi il problema, c’erano già tutti, prima. Questa Seconda Repubblica gli ha dato humus e terreno in cui radicarsi, tanto da fare sembrare che la Terza Repubblica – quando verrà – potrebbe fondarsi sulle pulsioni contrapposte e manichee di cui scrivevamo all’inizio. È un’eventualità da combattere subito, perché al paese serve altro. Serve una classe politica credibile e onesta, ovviamente, tanto da poter riconoscere serenamente, apertamente, che la giustizia italiana ha bisogno di risorse e di riforme strutturali, possibilmente da erogare insieme in un disegno unitario e coerente. Serve che la separazione dei poteri sia sancita in modo definitivo, chiudendo una ultra-decennale guerra tra il potere politico e quello giudiziario. Serve insomma che si riconosca che la giustizia italiana – quella civile ancora prima di quella penale – è una delle cose che non funzionano, e vanno riformate con urgenza.

Alla base di tutto servirà un’ammissione banale: la politica costa e va finanziata. Finito Berlusconi e il suo patrimonio, sarà un problema di tutti e non più solo di qualcuno. Sarà bene partire con una legge seria sul finanziamento dei partiti e sulla trasparenza assoluta dei loro bilanci e di chi li sostiene, come e in che misura. È parte integrante e sostanziale, dopo tutto, di quel che formalmente chiamiamo “diritto di voto”.

P.s. A proposito di diritto di voto, firmare per il Referendum elettorale certo non basta a risolvere i problemi del paese. Ma aiuta a sperare in una classe politica, quella di domani, più aperta alle preferenze del paese, e meno costruita ad immagine e somiglianza dei capi di questi partiti.

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