Lunedì sera il Financial Times annuciava: Italy turns to China for help in debt crisis. La notizia poi confermata il giorno dopo da fonti governative italiane, ha suscitato numerose reazioni ed aperto un ampio dibattito, con diversi commenti sulla natura dei fondi sovrani e sulle loro “munizioni”.
Non deve meravigliare la centralità dei sovereign wealth funds nella ridefinizione dello scacchiere dei mercati finanziari e nella nuova geografia economica. E’ passato il tempo in cui, quando i fondi sovrani si affacciavano alle imprese dell’Occidente, si scatenavano subito le polemiche sui “barbari alle porte”. Molti ricorderanno la copertina dell’Economist del 19 gennaio del 2008, Invasion of Sovereign Wealth Funds, in cui facendo riferimento alle parole di Bernanke si vedevano elicotteri con carichi di lingotti d’oro e quegli elicotteri però sembravano gli stessi delle scene del film Apocalipse Now. Oggi questi fondi, un tempo considerati “barbari e invasori”, sono ben integrati, anzi in certi casi considerati dei salvatori, anche se – sottotraccia – rimangono le preoccupazioni per la loro poca trasparenza e le loro “ logiche geopolitiche”.
Quello dei fondi sovrani è un mondo complesso e variegato ma che ormai è sempre più al centro dell’attenzione dei media e dei Governi perché – ed occorre sottolinearlo – nei mercati odierni sempre più in tempesta, l’investitore istituzionale che detiene liquidità, abbondante liquidità da spendere, ha la potestas clavium. Non ha bisogno di essere legittimato perché il suo potere è riconosciuto. Non ha bisogno di lanciare scalate ostili perché la liquidità basta per aprire le porte. Ma la loro forza non risiede solo nelle ingenti disponibilità. Vi è anche un altro elemento chiave, che è fondante per la ratio essendi della loro strategia di investimento: e cioè la visione di lungo periodo. In tempi in cui le Borse sono in preda a forte volatilità, dove imperversano i sistemi di flash trading, in cui si cerca di massimizzare i risultati di breve, i fondi sovrani invece possono permettersi uno “sguardo lungo”, una attenzione ai fondamentali economici di una società, di un settore o di un Paese. Da questa visione discende una differenza sostanziale e rilevante rispetto alle altre tipologie di investitori istituzionali: i fondi sovrani, in particolare quelli asiatici, cercano le eccellenze nel mondo dell’industria o delle infrastrutture.
Sono cioè più focalizzati su un approccio industriale del loro portafoglio, vogliono detenere assets “pesanti” e strategici. Comprano imprese estrattive o legate all’energia, miniere e terreni, stocks di materie prime, “terre rare”. E poi puntano su imprese leader di nicchia ed eccellenze tecnologiche.Dal punto di vista delle strategie di investimento, peraltro, il loro modello, dopo la crisi del 2008, si è raffinato e maggiormente strutturato. Rispetto ai fondi pensione, agli endowments delle grandi Università anglosassoni o alle blasonate private foundation, quello dei fondi sovrani è un modello meno sofisticato, meno legato alle teorie di Markowitz e alla costruzione di portafogli efficienti, ma che sta portando ad un nuovo protagonismo sui mercati.
Temasek Holdings, China Investment Corporation, Government of Singapore Investment Corporation, Hong Kong Monetary Authority Investment Portfolio, ADIA, Quatar Holdings ecc. hanno portafogli diversificati e ben strutturati, con sistemi di controllo del rischio e di coperture, ma la loro philosophia prima non risiede negli assunti del Capital Asset Price Model di Sharpe ma, piuttosto, in strategie geopolitiche: ipotizzano gli scenari futuri e puntano ad avere “presidi strategici”. Sono consapevoli che il mondo avrà fame di energia, per questo comprano società energetiche, minerarie e comprano reti di distribuzione.
Comprendono che la competizione tecnologica è sempre più serrata e per questo si focalizzano sulle eccellenze nell’innovazione. Puntano sui trasporti e sulle grandi infrastrutture, perché la globalizzazione implica che le merci, le persone, gli assets si spostino con frequenza ed intensità. In particolare i fondi sovrani asiatici intendono investire in quei settori industriali correlati con le importanti trasformazioni economiche che stanno avvenendo nel mondo, sono pronti ad individuare ed investire nelle aziende che hanno elevati vantaggi competitivi e scovare, selezionare quelle aziende in grado di sfruttate le grandi opportunità che saranno generate dell’incremento della classe media nei Paesi Emergenti.
Se anni fa i fondi sovrani si servivano principalmente di fondi di private equity o del sostegno delle investment banks americane, dopo la crisi finanziaria del 2008, hanno sviluppato autonome capacità di selezione e di intervento: entrano direttamente nel capitale di aziende produttive, multinazionali ecc. Anzi sono le grandi banche, i Governi, le istituzioni finanziarie globali che bussano alla loro porta.
Se il loro aiuto nei confronti dell’Italia vi sarà, in questa fase non è certo da disdegnare, anzi può servire per calmare temporaneamente le pressioni sul nostro Paese. Non deve diventare, tuttavia, un alibi per la nostra classe politica per non fare le necessarie e sempre più urgenti riforme strutturali di cui abbiamo bisogno. Né i fondi sovrani vanno considerati degli angeli munifici: fanno semplicemente (ed egregiamente) i loro interessi. Poi non è detto che nel lungo periodo i loro interessi coincidano con i nostri. Ma la potestas clavium intanto è tutta nelle loro mani.
*Dottorato di ricerca “Mercati e Intermediari Finanziari” –
Università degli Studi di Parma