Amici, informatici, grafici, concittadini, prestatemi orecchio: io vengo a seppellire Steve Jobs, non a lodarlo. Il male che gli uomini fanno sopravvive loro; il bene è spesso sepolto con le loro ossa; ma così non sarà di Jobs. Shakespeare avrebbe saputo trovare una formula degna del Giulio Cesare per dare l’estremo saluto al padre della Apple; ma stavolta non sarebbe stato comunque necessario il suo talento retorico per evitare che il bene fosse sepolto con il benefattore. Per la verità, non sappiamo se quello che Jobs ci ha lasciato in eredità sia un bene o un male; l’unica cosa certa è che noi siamo quell’eredità, almeno per tutto quello che riguarda il mondo dell’informazione, della comunicazione, della produzione e della ricezione culturale.
Credo che i momenti essenziali del lavoro di Jobs, dal punto di vista di chi si occupa di storia dell’informatica, siano almeno tre.
Il primo risale al 1979, e coincide con la sua visita ai laboratori della Xerox a Palo Alto. In questa occasione il ventiquattrenne Jobs conosce il lavoro condotto da Douglas Engelbart sul mouse e l’interfaccia uomo-macchina “a finestre” – ma soprattutto, per primo riconosce il motivo per cui questi strumenti sono stati prodotti in un programma di ricerca volto ad aumentare l’intelligenza dell’uomo con i calcolatori. Engelbart aveva presentato il prototipo del mouse e dell’interfaccia a finestre già più di 10 anni prima, a San Francisco. L’idea che i computer dovessero avere una destinazione umanistica era ancora più vecchia, e risaliva al lavoro condotto da Licklider all’Arpa nel 1963, e al Mit nel 1968. Il punto di vista di Licklider non era quello di un ingegnere o di un matematico, ma quello di uno psicologo: la sua convinzione che fosse possibile una simbiosi tra uomo e computer proveniva dalla tradizione di studi di Vannevar Bush, e si fondava sulla certezza che fosse possibile un nuovo modo di comprendere il mondo attraverso l’analisi meccanica delle relazioni tra le informazioni. Licklider aveva immaginato un rapporto uomo-macchina fondato sulla conversazione orale: HAL 9000 nel film di Kubrick 2001: Odissea nello spazio è la rappresentazione più efficace di questa prospettiva.
Noi siamo abituati a interagire con le macchine tramite monitor, interfacce grafiche, mouse e puntatori; ma a quel tempo i computer scambiavano input e output con i loro interlocutori umani tramite il linguaggio binario su strisce di carta e schede perforate. La proposta di Licklider era un futuro di interazioni come quelle che i protagonisti di 2001 intrattengono con HAL 9000: schermi e grafici (quando compaiono) sono del tutto secondari, mentre la voce e la conversazione naturale costituiscono il canale principale. Chiunque abbia provato ad interagire con un sistema di riconoscimento vocale ricorda l’ansia procurata dagli elenchi di comandi che vengono raccontati in sequenza: quando si arriva alla settima o all’ottava opzione, chi riesce a ricordarsi quale fosse la prima?
In questo contesto Engelbart immagina che l’incremento dell’intelligenza dell’uomo possa passare solo attraverso un sistema di lettura e di scrittura: i protagonisti dell’interazione non devono essere l’orecchio e l’ascolto sequenziale, ma la simultaneità della visione, che permette di percepire la connessione tra informazioni disparate. Con un grado maggiore di fedeltà a Vannevar Bush, Engelbart pensa che una maggiore intelligenza derivi dalla possibilità di cogliere le relazioni e le analogie emergenti da un insieme di testi mostrati in un’intuizione sincronica. Per esemplificare in modo molto semplice questa concezione, si immagini quanto è più facile sommare 2 numeri di 10 cifre se l’addizione viene scritta su un foglio o se si è costretti ad eseguire l’operazione a mente, senza poter visualizzare i fattori. Nel primo caso si tratta di un compito da scuola elementare, nel secondo si entra nell’ambito del virtuosismo lulliano.
Il lavoro di Engelbart viene pressoché ignorato dalla Xerox (che pure lo finanzia) per più di dieci anni, fino alla visita di Steve Jobs. Il fondatore della Apple può contare anche sulla sua continuità con la cultura degli hobbysti, che alla fine degli anni Settanta adottano le tecnologie del Mark 8 e del microprocessore 8008 della Intel per dare vita alla cosiddetta “prima ondata” dei personal computer. Nel 1984 esce il primo Macintosh, che sancisce il successo della “seconda ondata” dei personal computer con interfaccia grafica a finestre e mouse. Nessuna delle componenti ideologiche che confluiscono in questa macchina è stata partorita in prima persona da Jobs, né la visione umanistica dell’informatica, né la strategia di interazione, né la convinzione che il computer dovesse essere uno strumento che arreda le case e gli uffici di tutti – e non solo ildispositivo di calcolo potente di qualche università, della NASA o dei grandi gruppi industriali. Ma nel suo progetto tutti questi elementi dispersi negli ambiti separati degli studi di ingegneria, delle ricerche di psicologia, delle profezie umanistiche, delle fanzine degli appassionati (soprattutto di videogiochi) – sono confluiti nella visione unitaria di una forma di vita, di una nuova cultura, di una rivoluzione complessiva del modo in cui l’uomo abita il mondo. Il potenziamento dell’intelligenza umana esteso a tutti gli individui è una forma di business che rimodella in profondità la faccia del mondo.
Il secondo contributo decisivo di Jobs è il connubio iPod-iTunes. Anche in questo caso le idee erano note. Da anni il pubblico occidentale era abituato a considerare la musica come la colonna sonora di passeggiate, jogging e viaggi; Napster di Sean Parker aveva abituato gli utenti dal 1999 ad impossessarsi di singoli brani musicali, senza dover acquistare l’intero disco che li includeva. Napster aveva anche la piacevole caratteristica di aprire l’accesso alla musica in modo del tutto gratuito, con il solo inconveniente di accettare una pratica di appropriazione illegale. Il personal computer e la disponibilità della Rete in tutte le case e in tutti gli uffici hanno modificato le condizioni di fruizione e di produzione della cultura che caratterizzavano il XX secolo.
Il modello del Novecento è analogico, e descrivibile in termini informatici come un’interazione RO, read only: i contenuti possono soltanto essere letti, senza essere toccati, modificati, o prodotti in proprio. Al contrario, la diffusione dei dispositivi informatici ha permesso il ripristino delle modalità di frequentazione della cultura tipiche del folklore, in formato RW – read and write: lo spettatore si impossessa del materiale id partenza e lo manipola, lo trasforma, lo vive con il proprio contributo di interpretazione.
Le major della musica e dell’intrattenimento sono state le ultime a comprendere che questa trasformazione non è riducibile a un incidente di percorso, ma è una delle svolte storiche della civiltà occidentale che può essere paragonata all’introduzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg; forse non lo hanno ancora compreso fino in fondo. La loro reazione si è concentrata quindi nella dichiarazione di una guerra legale contro Napster e contro la pirateria informatica, opponendo un rifiuto senza barlumi di intelligenza alla necessità di modificare i modelli di produzione musicale e gli schemi di business collegati. L’esito è stato un disastro di immagine e un crollo verticale delle vendite. Jobs è stato l’unico a raccogliere la sfida in maniera adeguata – proponendo il progetto di un intero stile di vita.
La Apple si occupava di hardware, non di intrattenimento. Ma Jobs ha visto nel nuovo modello RW della cultura il piano di una convergenza complessiva del rapporto tra gli individui e la cultura. Tramite iTunes gli utenti possono acquistare in modo legale singoli brani a prezzi molto ragionevoli; grazie all’iPod, all’iPhone, all’iPad, al Match di iCloud, la piattaforma di interazione diventa il punto di convergenza di infinite tecnologie di delivery, tante quante sono le applicazioni che si attivano sul dispositivo. L’hardware incarna la varietà di modi con cui è possibile produrre, riprodurre e accedere ai contenuti: la creazione non richiede più la filiera industriale necessaria nel XX secolo, il rapporto del pubblico con la cultura che non si limita più alla contemplazione passiva, ma invita a conoscere i meccanismi di costruzione, a scoprire le regole che permettono di dare forma alle immagini e ai suoni, a potenziare il grado di intelligenza con cui si avvicinano le informazioni. Si pensi a quello che è possibile fare con Instagram nel mondo della fotografia, o come ci si può impaginare il proprio giornale con Flipboard. Jobs ha mostrato che l’abbattimento dei costi di produzione e la frammentazione del contenuto in unità minime non sono un sinonimo di fallimento per l’industria della cultura – ma il sostegno di un nuovo modello di business che plasma una nuova forma di vita.
Il terzo contributo decisivo di Jobs alla nostra cultura, a mio avviso, è la figura stessa di Steve Jobs. Il ragazzo con gli occhiali, che non brilla nella carriera di studi istituzionale, che non è un campione della squadra di football del college, che coltiva passioni troppo remote per poter fare colpo sulle ragazze con aspetto fisico e ricchezza – diventa un modello di successo. Il nerd geniale, asociale, con le spalle curve, si impone come un campione da imitare. Il trionfo di Jobs sgombra la strada a tutti i giovani brillanti che rifiutano il modello cristiano-muscolare di vita per obbedire alla loro legge interiore, per quanto strana possa apparire agli occhi degli altri, e per quanto minacciosa possa sembrare questa scelta per il loro successo futuro.
Jobs ha compreso che nel mercato contemporaneo il pubblico è composto da fans prima che da clienti; nel successo della Apple, Jobs stesso ha incarnato un mito capace di diventare oggetto di adorazione per milioni di persone. Le conseguenze delle cose che gli uomini ritengono reali sono reali, diceva Thomas: agli occhi di un popolo di fans l’attesa della next big thing promessa da Jobs non può che essere mantenuta da un prodotto che è senz’altro una grande cosa capace di anticipare il futuro.
Il mito del garage in cui sarebbero nate le prime esperienze di lavoro della Apple si iscrive in una tradizione che ha un predecessore in Hewlett e molti discendenti: è la leggenda dell’uomo invasato dalla sua passione e determinato come un eroe classico, che sfida il mondo intero e costruisce un impero. È la sceneggiatura che deve insegnare, in un’epoca di crisi e di precarietà, a contare solo sul proprio talento, sulla propria energia, e a non temere mai il cambiamento. Anche in questo, Jobs è stato non l’inventore, ma l’uomo che ha compreso l’esigenza di un modello di vita, e lo ha imposto come un pilastro centrale della nuova cultura contemporanea.
Jobs è Tre Volte Grande come l’Ermete della cultura rinascimentale, perché nei geroglifici delle sue creazioni e nella sua stessa figura ha proposto un’intera visione del mondo e l’ha resa un luogo abitabile per tutti, la casa in cui gli uomini contemporanei possono vivere e comprendere la realtà. Burckhardt sostiene che per gli Umanisti del Quattrocento anche la creazione e il governo di uno Stato erano un’opera d’arte; Jobs sembra essere stato guidato dalla stessa convinzione nella gestione di impresa e nell’invenzione di modelli di business. In un mondo oscurato dalla stupidità politica e dall’insensatezza della gestione finanziaria, Jobs ha mostrato che esiste un Rinascimento possibile, dove la lucidità della visione, il disprezzo per la barbarie e la capacità imprenditoriale, possono formare una nuova cultura e una nuova forma di vita. In questo momento il Rinascimento non sembra poter essere una faccenda per gli italiani; ma Rinascere si può e si deve. Grazie, Steve Jobs.