Anche in Marocco ha vinto il partito di Erdogan

Anche in Marocco ha vinto il partito di Erdogan

Dieci giorni fa i ministri degli Esteri di Turchia e Marocco hanno firmato quattro accordi di cooperazione, dal coordinamento delle politiche in materia di pesca al riconoscimento delle patenti di guida, dalla collaborazione scientifico-tecnologica a quella in ambito sportivo. Intese apparentemente minori, ma dal valore fortemente simbolico.

Sembra passata un’era geologicada quando, nel 2004, Ankara e Rabat firmarono un trattato di Libero Scambio. La Turchia guardava soprattutto all’Europa, dove i negoziati per l’adesione si impantanavano davanti ai dubbi di alcuni big dell’Unione, in prima fila la Germania. Nel mondo arabo lo status quo sembrava immodificabile, prigioniero di regimi decennali, che spesso si mantenevano al potere presentandosi all’Occidente con una sorta di ricatto: o noi o il fondamentalismo islamico.

Oggi il Maghreb e il Mashrek vivono un’epoca di mutamenti repentini, non hanno più le doglie – come disse Condoleeza Rice dopo la presa di Baghdad – ma hanno partorito dall’inizio dell’anno ben quattro regime change, in Tunisia, Egitto, Libia e Yemen. La Turchia ha raffreddato i rapporti con il Vecchio Continente e ha mostrato i muscoli all’antico alleato israeliano, dopo l’incidente della Freedom Flotilla. Al tempo stesso, la continua evocazione del modello turco, capace di conciliare Islam e democrazia, da parte dei movimenti di protesta, soprattutto dell’ala islamista, hanno alimentato le ambizioni di Ankara, tanto che da più parti si parla apertamente di un progetto neo-ottomano.

In questo disegno il Marocco assume un ruolo chiave, perché può rappresentare la testa di ponte che consente alla Turchia di costruire una rete di relazioni nel Nord Africa e, più in generale, in tutto il continente nero. «L’accordo tra Ankara e Rabat», spiega Saeid al Sediki, professore di Relazioni Internazionali all’Università di Fes, «porterà alla creazione di un ufficio speciale per approfondire il dialogo politico e strategico». D’altronde, i due Paesi vantano un background storico parallelo, hanno una posizione geografica invidiabile – grazie alla vicinanza all’Europa – e costituiscono di fatto due importanti player del mondo islamico. «La primavera araba», prosegue Sediki, «ha ulteriormente rafforzato questi elementi comuni. Adesso la Turchia sta cercando di stabilire intese con i Paesi che determineranno il futuro dell’area, e il Marocco è uno di questi».

Rabat ha visto di buon grado la caduta di Gheddafi, che sosteneva le rivendicazioni territoriali degli indipendentisti del Sahara occidentale. Inoltre, re Mohammed VI è stato abile nel cogliere il mutato clima politico. Le proteste nel Paese non hanno mai raggiunto dimensioni di massa, anche perché il monarca ha offerto alla piazza piccoli, ma significativi, segnali di cambiamento. La nuova Costituzione, ratificata da un referendum lo scorso 1 luglio, obbliga il sovrano a nominare come primo ministro il leader del partito che ottiene la maggioranza alle elezioni. Al premier vengono affidati maggiori poteri, come quello di sciogliere le camere, anche se le leve del potere militare, giudiziario e religioso – sostengono i critici – restano saldamente nelle mani del Makhzen, il Palazzo.

Il primo banco di prova delle riforme sono proprio le elezioni politiche, una tornata a cui la Turchia guarda con grande interesse. Ankara, infatti, come il Qatar, è convinta che gli islamisti saranno tra i protagonisti nel ridefinire la mappa geopolitica del mondo arabo. In Libia hanno contribuito alla caduta del regime, soprattutto nell’ultima fase, quella che ha portato alla presa di Tripoli. In Tunisia l’islam moderato di Ennahda, affine all’Akp di Erdogan, ha conquistato la maggioranza relativa in occasione del primo voto democratico e il suo leader, Hamadi Jebali, è destinato a diventare il nuovo premier. In Egitto il neonato “Libertà e Giustizia”, riconducibile ai Fratelli Musulmani, otterrà probabilmente un buon risultato al termine della maratona elettorale che si apre lunedì.

Con tutti questi movimenti la Turchia sta costruendo legami sempre più stretti. Anche in Marocco il partito “Giustizia e Sviluppo”, che riprende il modello dell’Akp persino nel nome, si è affermato alle elezioni. Se gli islamisti, come sembra, dovessero addirittura esprimere il premier, i rapporto turco-marocchini si intensificherebbero ancor più.

Quel che sta cambiando è la percezione di Ankara all’interno del mondo arabo. Dopo la rivoluzione kemalista la Turchia è stata sempre vista come parte dell’Occidente. La prospettiva è cambiata con l’arrivo al potere del partito di Erdogan. Ankara ha perso la propria marginalità, diventando un vero e proprio pilastro, indispensabile per la stabilità regionale. Dal Nord Africa al Medio Oriente, passando per il Caucaso, la Turchia viene considerata un partner strategico, e non un semplice alleato degli Usa e dell’Occidente.

L’Akp fa leva sui legami storici e sulle affinità religiose per orientare i processi di cambiamento in atto nell’area. Respinta dall’Europa, Ankara volge il proprio sguardo verso l’Africa. Lo scorso agosto, in piena crisi alimentare somala, un primo ministro straniero fece visita a Mogadiscio, promettendo un impegno costante del proprio Paese per uscire dall’emergenza. Si chiamava Recep Tayyip Erdogan.  

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