Conferenza sul clima, è ora di dare dei limiti alla Cina

Conferenza sul clima, è ora di dare dei limiti alla Cina

Apre oggi la conferenza del Clima di Durban, che dovrebbe rinegoziare un trattato internazionale in sostituzione di Kyoto, in scadenza alla fine di quest’anno. Tra incognite asiatiche e pessimismo occidentale, l’esito delle discussioni è aperto, ma ben pochi ritengono che il risultato finale sarà all’altezza dell’emergenza climatica.

È prima di tutto un fatto di “eredità diplomatica”. Il trattato di Kyoto, che presto scadrà, ha fatto davvero poco per la limitazione delle emissioni. È stato un problema di disequilibri: i paesi occidentali (a parte gli Stati Uniti, che non hanno firmato) si sono impegnati in una riduzione totale del 5,2% delle emissioni rispetto al 1990, entro la fine del 2011. Altri paesi “in sviluppo” potevano invece emettere a capacità: qui è nato il disastro.

L’unico modo per limitare le emissioni di Cina e compagnia era rappresentato dai “Clean Development Mechanism”: progetti di “sviluppo sostenibile”, promossi da paesi occidentali, che riducessero le emissioni in loco. Tale riduzione rappresentava poi un “credito” di cui beneficiare per conteggiare le emissioni in patria. Se la Germania introduceva dei filtri per ciminiere in Cina, le emissioni risparmiate andavano a riduzione del totale tedesco.

Chiaramente un sistema simile non ha funzionato: insieme a tanti progetti validi, c’è stata una pletora d’iniziative capestro, fatte al risparmio e pensate solo per il “trading di emissioni”. Ancora peggio, il disequilibrio di Kyoto è stato un “incentivo alla deindustrializzazione”: il Far-West cinese della CO2 rendeva più conveniente chiudere linee di produzione in Europa, e aprirne a Shenzen.

Dal 2007 la Cina è diventata il maggior paese al mondo in termini di emissioni. Il paese asiatico si difende: è chiaro che uno stato con oltre 1,3 miliardi di abitanti, prima o poi avrebbe dovuto iniziare a emettere CO2. In fondo, le emissioni pro-capite sono molto basse (attorno all’ottantesimo posto al mondo). C’è poi un discorso di eguaglianza: storicamente, gli USA e gli altri paesi capitalisti hanno emesso molta più CO2 di Pechino. È ora che l’Occidente abbassi la testa e faccia spazio agli altri.

Questo ragionamento, ripetuto come una litania dalle delegazioni cinesi, è un caso esaltante di “number magic”. Il vero numero da osservare non sono le emissioni pro-capite, ma le emissioni paragonate alla ricchezza prodotta. In Italia, per ogni dollaro di ricchezza nel 2007 venivano emessi 0,26 grammi di CO2, e negli Stati Uniti 0,44. In Cina i grammi emessi per dollaro erano 2,59. Se correggessimo per la parità del potere d’acquisto, i dati cinesi migliorerebbero di un 40%, ma rimarrebbero sempre preoccupanti.

Centrale a carbone a Lifen, nella provincia dello Shanxi (Afp)Inquinamento atmosferico a Pechino (Afp)

Il problema è il “modello cinese”: esso sta replicando su scala immane il lurido percorso di sviluppo delle società occidentali nel diciannovesimo secolo. Circa l’85% dell’energia cinese proviene dal carbone, e ogni anno le emissioni aggiuntive del paese sono pari al totale di quelle tedesche. Insomma, ha poco senso che noi ci impegniamo tanto per limare la nostra produzione di CO2 di una qualche percentuale, se poi il contributo orientale è apocalittico.

Kyoto, in fondo, è stato un meraviglioso e orrendo capolavoro diplomatico cinese: Pechino poteva emettere in libertà, e il trattato ha costretto gli altri paesi a ridurre la produzione di CO2 – senza dimenticare che i pannelli fotovoltaici prodotti col carbone cinese potevano essere esportati verso la “verde” Europa, sempre per soddisfare Kyoto.

Arriviamo a Durban dopo un giro di negoziati fallito (Copenhagen 2009) e un altro così sommerso da marketing diplomatico da nascondere un sostanziale fallimento (Cancùn 2010). Le negoziazioni si sono orientate su un duopolio sino-americano, con gli altri paesi in coda: dopo tante concertazioni, le due grandi potenze hanno creato un “asse climatico” che catalizza le trattative.

Negli ultimi round, Obama ha fatto una proposta chiara: entro il 2020 Washington ridurrà le proprie emissioni del 17% rispetto al livello del 2005. Altri paesi hanno fatto proposte simili. La Cina è stata più sibillina: Pechino ha offerto di ridurre “l’intensità carbonica” della propria economia, cioè di diminuire la quantità di CO2 prodotta per unità aggiuntiva di Pil. L’idea americana è di facile comprensione: entro il 2020 gli Stati Uniti s’impegneranno a diminuire le emissioni di una quantità pari al totale della produzione di CO2 di Francia e Italia insieme. 

Il piano di Pechino necessita di qualche spiegazione in più. L’idea di ridurre “l’intensità energetica” dell’economia nazionale non significa, come hanno suggerito alcuni, che le emissioni saranno ridotte del 45%. Vuol dire solo che l’intensità di emissioni per le unità “aggiuntive” di Pil (rispetto al 2005) migliorerà. Se da qui al 2020 l’economia cinese crescerà dell’8% l’anno, le emissioni totali aumenteranno circa dell’87% (arrivando a 8.800 milioni di tonnellate l’anno), con un aumento pari alla produzione attuale di tutta l’Unione Europea. Soprattutto, l’aumento cinese compenserebbe abbondantemente la riduzione americana.

È chiaro che per ottenere qualcosa da Pechino, l’Occidente dovrà fare qualche concessione. In fondo, lo sviluppo economico è strettamente collegato alle emissioni, e la Cina ha tutto il diritto di crescere. Non è convincente che abbia il diritto di replicare il modello delle rivoluzioni industriali occidentali, semplicemente perché ciò porterebbe all’apocalisse climatica. Pechino può però pretendere che l’Occidente trasferisca e impieghi parte della sua tecnologia per consentire alla Cina un percorso di sviluppo più verde ed efficiente.

Oppure, potrebbe trionfare ancora una volta il marketing. Della Cina si guardano ormai solo l’industria eolica (la maggiore al mondo) e quella fotovoltaica (la maggiore per esportazioni) e ci sono interessi industriali perché ciò avvenga. L’elefante nella stanza, rappresentato da carbone, camion sgangherati e ciminiere senza filtri, passa sempre in secondo piano. La politica, forse, non ha oggi la forza di far cambiare marcia – ma l’opinione pubblica sì. Il nostro futuro è in bilico al bordo di oscuri tavoli negoziali: è ora di interessarsi di questi temi, oltre la pubblicità.

Inquinamento nei pressi di una diga a Krichim, Bulgaria (Afp)

* Autore di “La Guerra del Clima – Geopolitica delle Energie Rinnovabili”, Francesco Brioschi Editore, 2011

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