Se Israele subisse un attacco nucleare iraniano, la Repubblica islamica commetterebbe «un pubblico, doloroso suicidio di massa». È l’opinione di Gideon Levy, uno dei più famosi giornalisti israeliani. In realtà già nel gennaio del 2007 lo diceva chiaro e tondo (salvo poi ritrattare) l’allora presidente francese Jacques Chirac: se l’Iran osasse lanciare una testata nucleare contro Israele, Teheran sarebbe subito rasa al suolo. Né Washington né la Nato potrebbero accettare la distruzione di Israele, questo è ovvio. E contro il “Golia” iraniano, il “Davide” israeliano ha ben più di una fionda: da una formidabile aeronautica militare, a quello straordinario deterrente che sono i sommergibili Dolphin, in grado di lanciare testate nucleari, e che si dice stazionino a largo delle coste iraniane. Non a caso nel luglio del 2008 l’allora ministro delle infrastrutture Binyamin Fuad Ben-Eliezer dichiarava: «Un attacco iraniano a Israele condurrà a un’aspra risposta israeliana, che causerà la distruzione della nazione iraniana».
Tuttavia Gerusalemme ha paura, teme un Iran nucleare. In Israele l’ultimo rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) è stato letto con la massima attenzione. L’Agenzia «nutre serie preoccupazioni per quanto riguarda la possibile dimensione militare del programma nucleare iraniano»; le informazioni raccolte a riguardo sono credibili, e «indicano che l’Iran ha svolto attività relative allo sviluppo di un dispositivo esplosivo nucleare». Alcune di queste attività potrebbero essere ancora in corso, nonostante l’arresto di “un programma strutturato” alla fine del 2003.
Il rischio di un Iran con un arsenale atomico è un incubo per i cittadini israeliani. Difficile non capirli. Tutti conoscono le odiose dichiarazioni del presidente Mahmud Ahmadinejad, che ha più volte negato l’Olocausto. In una recentissima intervista al quotidiano egiziano Al Akhbar, poi ripresa dal Tehran Times, ha paragonato Israele «a un rene che è stato trapiantato, ma che il corpo ha rigettato», pronosticando il rapido collasso del «regime sionista». Certo, almeno una parte dei discorsi di Ahmadinejad sono rivolti al suo “elettorato”: il vasto proletariato rurale e urbano dell’Iran; gente povera e ignorante, imbevuta di rigore sciita e orgoglio ultranazionalista. Come molti altri demagoghi in molte altre parti del mondo, Ahmadinejad cavalca la rabbia e la frustrazione dei concittadini più poveri, trasformandole in voti e sostegno preziosi. Ma anche a non voler prendere sul serio Ahmadinejad, bisogna prendere sul serio i suoi sponsor: i Guardiani della Rivoluzione, o pasdaran. L’Iran infatti non è una democrazia, ma nemmeno più una teocrazia, ormai: come ha denunciato di recente il segretario di Stato americano Hillary Clinton, «vediamo che il governo dell’Iran, la Guida suprema, il parlamento stanno venendo soppiantati, e che l’Iran si sta muovendo verso una dittatura militare». Le parole della Clinton danno ragione agli esperti. Da tempo questi definiscono la Repubblica islamica «un ordinario governo di sicurezza militare, con una facciata di clericalismo sciita».
Insomma, Teheran starebbe seguendo l’esempio del Pakistan, dove circola una vecchia battuta: “i Paesi normali hanno un esercito, in Pakistan l’esercito ha un Paese.” E proprio alla stregua del Pakistan, l’unica potenza nucleare islamica del mondo, pure Teheran sogna un suo arsenale atomico. Un sogno dettato da ragioni abbastanza ovvie. Come spiegava nel 2006 l’allora segretario della Difesa statunitense Robert Gates, gli iraniani «sono circondati da potenze nucleari: il Pakistan a est, i russi a nord, gli israeliani a ovest e noi nel Golfo Persico». Peraltro né i mullah né i pasdaran sono dei pazzi fanatici, contrariamente a quanto pensa il premier israeliano Benjamin Netanyahu. In un’intervista concessa nel marzo del 2009 al giornalista Jeffrey Goldberg, Netanyahu dichiarava che «nessuno vuole che un culto apocalittico messianico controlli delle bombe atomiche. Quando degli zeloti creduloni sono al potere e hanno armi di sterminio, allora il mondo intero dovrebbe iniziare a preoccuparsi, ed è quello che sta succedendo in Iran».
La leadership iraniana però non cerca il martirio. Vuole il potere, e tutto ciò che ne consegue. Chiede soldi, privilegi, cariche altisonanti e onori. Sogna ville foderate di marmo italiano, auto tedesche e conti in Svizzera. I tempi eroici dell’Imam Khomeini, così ascetico e severo, sono passati. Il potere iraniano è oggi diviso in varie fazioni, in feroce lotta tra loro, ma tutte accomunate da uno sfrenato spirito di saccheggio. Secondo il Corruption Perception Index del 2010 elaborato da Transparency International (clicca qui per informazioni sulle rilevazioni), l’Iran è al 146° posto (su 178 posti). In altre parole la Repubblica islamica è uno dei Paesi più corrotti del globo. Persino nello Zimbabwe di Mugabe, o nel confinante Pakistan, c’è più onestà.
La cerchia del presidente Ahmadinejad, ad esempio, è coinvolta nel più grande scandalo finanziario della storia iraniana: una storiaccia di frodi miliardarie che ha spinto il direttore della principale banca coinvolta a espatriare, e Ahmadinejad a tuonare contro i “complotti” organizzati dal figlio della Guida Suprema, Mojtaba Khamenei. Cioè colui che l’anziano e malato Ali Khamenei vorrebbe come suo successore, in perfetto stile nordcoreano. L’uomo più ricco dell’Iran (o almeno considerato tale) è il settantasettenne Ali Akbar Hashemi Rafsanjani: uno dei “mullah milionari” descritti da Forbes nel 2003. «I membri del clero di regime, lontani dall’essere dei puritani fanatici della guerra santa, sono occupati a riempirsi le tasche e a prepararsi per la pensione aprendo conti off-shore», dichiarava in quel periodo Paul Klebnikov, senior editor di Forbes.
Ci sono poi i pasdaran. Con la presidenza di Ahmadinejad, il loro potere è cresciuto a dismisura. E non è solo un potere politico-militare, ma economico-finanziario. I pasdaran stanno infatti approfittando delle sanzioni e della stagnazione economica per indebolire i concorrenti borghesi (in primis i mercanti dei bazar) e allargare ulteriormente il loro già immenso giro d’affari. E mentre la disoccupazione infuria, e l’inflazione erode il potere d’acquisto dei comuni cittadini, chi può porta capitali all’estero, o accumula in cassaforte valuta straniera e oro.
È partendo da un contesto simile che si può comprendere il sogno atomico della Repubblica islamica. Il nucleare non interessa ai leader iraniani per radere al suolo Israele, ma per diventare intoccabili. È una polizza sulla vita. Perché sia i mullah sia i pasdaran sanno che lanciare una sola testata nucleare contro Israele significherebbe auto-condannarsi a morte. Però sanno pure che nessun “regime change” imposto dall’esterno ha mai avuto luogo in uno Stato munito di arsenale nucleare. La bomba atomica è, si potrebbe dire, il Gerovital dei dittatori. La Corea del Nord insegna: per quanto il regime di Pyongyang possa minacciare il mondo, schiavizzare il suo popolo o falsificare dollari, nessuno oserebbe rovesciarlo con la forza. Stesso discorso per il Pakistan, accusato di sostenere i ribelli afgani. E George W. Bush avrebbe invaso l’Irak, se Saddam Hussein avesse davvero posseduto la bomba atomica ?
Ora Israele ha di fronte a sé un dilemma: intervenire militarmente per impedire che l’Iran diventi una potenza atomica, o scegliere altre soluzioni, nella speranza che alla fine siano gli Stati Uniti a risolvere il problema. In fondo pure gli altri attori della regione, specie i sauditi, confidano nell’azione dell’alleato americano. Grazie ai cablo diffusi da WikiLeaks si è saputo che già nel 2008 il re saudita Abdullah incitava l’America a “tagliare la testa del serpente [iraniano].” Al momento però Washington non sembra molto disposta a tagliare teste. Piuttosto è disponibile a fornire sciabole. L’amministrazione Obama è infatti uno sponsor del riarmo regionale in chiave anti-iraniana. Nel 2009 ha autorizzato la cessione a Israele delle bombe “distruggi-bunker” Gbu-28, seppure (come spiega un altro cablo divulgato da WikiLeaks) con grande riservatezza, «per evitare che il governo americano venga accusato di aiutare Israele nella preparazione di un attacco contro l’Iran». Nel 2010 ha concesso ai sauditi di comprare armamenti americani per oltre 60 miliardi di dollari, inclusi un’ottantina di caccia F-15 e un’enorme flotta di elicotteri, tra cui settanta Apache e altrettanti Black Hawk. La vendita, la maggiore della storia americana, non solo darà lavoro a decine di migliaia di statunitensi per parecchi anni, ma rafforzerà in modo significativo le capacità militari di Riyad. Non è tutto: gli Stati Uniti intendono rifornire di armamenti gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman e il Kuwait.
Un conto però è vendere armi ai nemici dell’Iran, un altro è fare la guerra all’Iran. Il presidente Obama continua a considerare le sanzioni più efficaci di un’operazione militare (che pure non esclude a priori), e cerca la sponda diplomatica di Russia e Cina. Un attacco all’Iran avrebbe «conseguenze inattese», ha ammonito il segretario alla difesa Leon Panetta, con un possibile grave impatto sulla regione e sulle forze americane là stanziate. I repubblicani però si fanno sentire. Mitt Romney, impegnato nelle primarie del Grand Old Party, recentemente ha dichiarato: «Se rieleggeremo Barack Obama, l’Iran avrà l’arma nucleare. Se eleggerete Mitt Romney, l’Iran non avrà l’arma nucleare». Mentre a Washington si discute, a Gerusalemme sembra prevale la paura; e l’idea che si debba agire da soli, prima che sia troppo tardi. Perché la dottrina Begin, secondo la quale «per nessuna circostanza si deve consentire al nemico di sviluppare armi di distruzione di massa contro il nostro popolo», non può essere infranta.