Da Al Jazeera al gas, è il Qatar la nuova potenza mediorientale

Da Al Jazeera al gas, è il Qatar la nuova potenza mediorientale

In Libia l’era Gheddafi è finita. In Siria Assad è rimasto isolato. In Palestina Hamas ha preso le distanze da Damasco e guarda altrove. In Yemen governo e opposizione stanno cercando faticosamente un accordo per smuovere il Paese dallo stallo. In Giordania i Fratelli Musulmani aspirano a rientrare nel gioco politico. La Tunisia è il primo grande laboratorio arabo in cui si tenta di conciliare la democrazia con l’Islam.

Dietro tutti questi movimenti c’è un minuscolo stato, più piccolo della Campania, meno popolato della Calabria, il Qatar. La carta geopolitica del Medio Oriente si è improvvisamente ingiallita, leader storici sono caduti, lo status quo è sottoposto a una lenta ma inesorabile opera di revisione e in questo vuoto di potere l’emiro Hamad bin Khalifa Al Thani ha giocato le proprie carte, forte di un notevole peso economico, di una micidiale potenza mediatica e di una rete di relazioni che abbraccia tutto il mondo arabo.

Sabato scorso la Lega Araba ha sospeso l’adesione della Siria. Ieri, dopo un vertice tenuto a Rabat, l’organizzazione ha minacciato sanzioni economiche nel caso in cui Damasco non mantenga le promesse fatte al segretario Nabil el Araby: il ritiro dell’esercito dalle città assediate, la liberazione dei prigionieri politici, l’avvio di trattative con l’opposizione. Un salto di qualità rispetto alle misure già prese da alcuni paesi – come il richiamo dell’ambasciatore deciso dall’Arabia Saudita – in cui il ruolo di Doha è stato determinante.

Il Qatar aveva scommesso nell’opera di modernizzazione promossa da Assad, investendo in maniera ingente nell’economia siriana, ma la rivolta scoppiata a marzo ha guastato i rapporti tra i due Paesi. L’atteggiamento del raìs, che con una mano annunciava le riforme e con l’altra usava il pugno di ferro, ha portato l’emiro a schierarsi progressivamente con l’opposizione, come era avvenuto in Libia.
È difficile che si arrivi a un intervento armato in Siria, anche se fu proprio la presa di posizione della Lega, con la successiva richiesta di una no fly zone, a costituire la base della missione Nato in Tripolitania e in Cirenaica. In caso contrario, però, il Qatar farebbe la propria parte, come già accaduto in Nordafrica.

Doha è stato il primo paese arabo a riconoscere il Consiglio nazionale transitorio di Bengasi. Ha partecipato allo sforzo bellico, ha addestrato militarmente e ha sostenuto economicamente i ribelli. Ha accolto i transfughi del regime, come l’ex ministro degli Esteri, Moussa Koussa. Ha permesso agli insorti di trasmettere dagli schermi di una tv satellitare. Nel momento in cui gli Stati Uniti non possono più permettersi un impegno su larga scala, le tradizionali potenze sunnite sono distratte dai problemi interni, l’Iran deve gestire il dossier nucleare ed è prigioniero di lotte intestine, il Qatar si presenta come l’unico attore in grado di agire con rapidità ed efficacia. L’Egitto è impegnato nella transizione post Mubarak, la gerontocratica classe dirigente dell’Arabia Saudita si sforza di disinnescare qualsiasi ipotesi di rivolta endogena, la Siria è dilaniata dalla guerra civile: in questo contesto il dinamismo del Qatar non fatica ad emergere, anche in qualità di mediatore, come nello Yemen che cerca da mesi un’intesa per l’exit strategy del presidente Saleh.

Secondo alcuni, Doha si muoverebbe secondo una linea settaria. In Siria, ad esempio, non farebbe altro che sostenere l’opposizione sunnita contro l’élite alawita di Assad. Un’ulteriore prova di questa tesi sarebbe l’appoggio all’intervento saudita in Bahrein, per reprimere la rivolta degli sciiti. Altri parlano invece di un’agenda islamista che il Qatar vorrebbe imporre a tutto il mondo arabo. Bassma Koudmani, uno dei leader dell’opposizione siriana, crede invece che l’emiro si sia limitato a riempire un vuoto: «Ha occupato uno spazio e un ruolo che era stato lasciato scoperto da altri Paesi».

La stessa posizione assunta sulla Siria mirerebbe soprattutto ad eliminare un importante competitor nella leadership regionale. L’opportunismo qatariota si estenderebbe anche al sostegno fornito ai movimenti islamisti che beneficiano dell’apertura dei sistemi arabi alla competizione politica. «Il Qatar è un Paese privo di ideologia – sostiene Talal Atrissi, analista politico libanese. – Doha sa che gli islamisti rappresentano il nuovo potere. Alleandosi con loro, vuole estendere la propria influenza sull’intera area».

A differenza di Arabia Saudita ed Emirati Arabi, l’emiro mantiene stretti legami con le differenti branche dei Fratelli Musulmani, dalla Libia alla Siria, dall’Egitto alla Giordania, dove tenta di favorire un riavvicinamento tra il Fronte di azione islamica e il governo del neo-premier Awn Khasawne. Khaled Meshal, leader in esilio di Hamas, è di casa a Doha, come il popolare islamista egiziano Yusuf Qaradawi. Gli stessi talebani potrebbero aprire una loro rappresentanza nel Golfo.
Sono piuttosto noti i rapporti tra il Qatar e Rachid Ghannouchi, capo carismatico di Ennahda, il partito uscito vincitore dalle recenti elezioni tunisine, anche grazie al sostegno economico dell’emiro. Ma l’apporto più evidente si è avuto in Libia, dove gli islamisti espatriati a Doha hanno giocato un ruolo chiave nella fine di Gheddafi, in primo luogo il predicatore Ali Sallabi e il guerrigliero Abdel Hakim Belhaj, attualmente al vertice del consiglio militare di Tripoli.

È probabile che la prossima generazione di leader arabi non esca più dal milieu militare, ma da quello dell’Islam politico. Doha è pronta a relazionarsi con questa nuova classe dirigente, non come punto di riferimento politico – dal punto di vista retorico, in questa fase prevale il modello turco – ma attraverso la potenza combinata del denaro e dei media. Il Qatar è fra i Paesi più ricco del mondo, secondo il Pil pro capite. Detiene fra le maggiori riserve di gas del pianeta. A questo si aggiunge il soft power garantito da al Jazeera, il principale canale televisivo della regione. L’emittente fondata e finanziata dall’emiro è un formidabile strumento di pressione e un decisivo atout della politica estera, perché può accendere o spegnere i riflettori, a seconda delle convenienze.

La strategia di Al Thani rimane comunque flessibile. Il sostegno agli islamisti non significa affatto una rottura con Washington, che considera Doha un alleato strategico e mantiene nel Paese due basi militari, né l’emiro disdegna i rapporti con gli sciiti: lo scorso anno fu accolto come un eroe dai sostenitori di Hezbollah, perché li aveva aiutati a ricostruire le città bombardate da Israele nella guerra del 2006.

L’attivismo qatariota mostra limiti e contraddizioni, come si è visto in Bahrein. Né una monarchia assoluta può rappresentare l’orizzonte ideale di chi ha promosso la primavera araba. Nella stessa Libia si sono levate le prime voci critiche. Abdulrrahman Shalgam, ex ambasciatore alle Nazioni Unite, ha accusato Doha di voler trasformare la Libia in un proprio satellite. Una denuncia espressa, in maniera più velata, anche da Mahmoud Jibril, ex premier del Cnt di Bengasi: «Con i soldi e le televisioni, il Qatar sta interpretando un ruolo superiore al suo potenziale».
 

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