Fra Israele e Iran è la guerra dei servizi segreti

Fra Israele e Iran è la guerra dei servizi segreti

Qualche giorno fa il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo dello storico Niall Ferguson su come sarà l’Europa del 2021. Con ironia tutta britannica Ferguson immagina un’eurozona che la grande crisi del 2010-2011 ha trasformato negli Stati Uniti d’Europa: la Germania domina, il Regno Unito prospera nel suo splendido isolamento, i Paesi mediterranei (Italia inclusa) sono villaggi-vacanza per i danarosi turisti tedeschi. Quando Ferguson passa a descrivere il Medio Oriente, il tono cambia: nel 2012 un attacco israeliano contro i siti nucleari iraniani scatena la furia di Teheran, e il destino del Medio Oriente cambia per sempre.

Naturalmente Ferguson non è un veggente: insegnare ad Harvard, ed essere uno degli storici più influenti del pianeta, non rende infallibili. Tuttavia il suo scenario è meno fantapolitico di quanto sembri: infatti sono in tanti a temere un bombardamento israeliano ai siti nucleari iraniani. Un’azione gravida di conseguenze. Perché quasi di sicuro provocherebbe un devastante conflitto regionale.

Un Iran nucleare è il principale incubo di Israele. Non a caso l’ultimo rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) è stato accolto a Gerusalemme con grande inquietudine. L’Agenzia, infatti, «nutre serie preoccupazioni per quanto riguarda la possibile dimensione militare del programma nucleare iraniano»; le informazioni raccolte a riguardo sono credibili, e «indicano che l’Iran ha svolto attività relative allo sviluppo di un dispositivo esplosivo nucleare». Alcune di queste attività potrebbero essere ancora in corso, nonostante l’arresto di «un programma strutturato» alla fine del 2003.

La dottrina Begin (dal nome del primo ministro conservatore Menachem Begin) teorizza che «per nessuna circostanza si deve consentire al nemico di sviluppare armi di distruzione di massa contro il nostro popolo». Finora Israele si è sempre attenuta a questa dottrina: nel 1981 fu Begin in persona a ordinare un attacco aereo contro il reattore nucleare irakeno Osirak (operazione Opera), e nel 2007 Ehud Olmert autorizzò il bombardamento di un sito siriano (operazione Orchard).

Ora che è forse l’Iran a sognare un arsenale atomico, ecco il presidente israeliano Shimon Peres avvertire il mondo che un attacco alla Repubblica Islamica è «più vicino.» Detto da un Nobel per la pace, un avvertimento simile non può che suonare sinistro. In realtà la leadership israeliana sembra essere molto divisa: da una parte ci sono i falchi, disponibili a un intervento militare; dall’altra le colombe, fortemente contrarie. I falchi comprenderebbero il primo ministro conservatore Benjamin Netanyahu e il suo ministro della difesa, l’ex laburista Ehud Barak (ora a capo del nuovissimo partito centrista Indipendenza).

Secondo uno dei più influenti opinionisti di Israele, Nahum Barnea, Netanyahu e Barak potrebbero aver già deciso di lanciare un attacco, sebbene per motivi diversi: Netanyahu considera il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad un moderno Hitler, da fermare a tutti i costi; Barak (il militare più decorato del Paese) confida che le forze armate israeliane possano neutralizzare le ambizioni nucleari dell’Iran proprio come hanno fatto in passato con l’Irak e la Siria.

Solo che l’Iran non è l’Irak di Saddam Hussein. Tantomeno la Siria di Bashar al-Asad. La logica “chi sferra il primo colpo, vince” con l’Iran è perdente. Perché la Repubblica islamica ha più di 70 milioni di abitanti. Il secondo Pil del Medio Oriente. Un apparato militare cospicuo. E una superficie pari a oltre cinque volte quella italiana.
A differenza di quanto accadde nel 1981 o nel 2007, gli aerei con la stella di David non dovrebbero distruggere un singolo reattore nucleare, ma una pluralità di siti ben protetti, disseminati su tutto il territorio iraniano.

Nell’establishment politico-militare israeliano il decisionismo del tandem Netanyahu-Barak è assai temuto. Specie considerando che l’amministrazione Obama non ha alcun desiderio di seguire l’alleato in pericolose avventure. Leon Panetta, segretario della difesa ed ex direttore della Cia, lo ha detto chiaramente: un attacco all’Iran avrebbe «conseguenze inattese», con un possibile grave impatto sulla regione e sulle forze americane là stanziate.

Le cautele statunitensi sembrano però avere sempre meno presa sul gabinetto israeliano. Secondo quanto ha rivelato un funzionario di alto livello al quotidiano israeliano Haaretz, Netanyahu e Barak avrebbero convinto della bontà delle loro idee il ministro degli esteri, l’ultraconservatore Avigdor Lieberman. Continuerebbero però a incontrare la fermissima resistenza del ministro degli interni e del ministro delle finanze.

La “strategia della persuasione” di Netanyahu e Barak è una scelta razionale, dal loro punto di vista: qualora l’attacco fosse davvero lanciato, il governo dovrebbe presentare al Paese e al mondo un fronte unito, in modo da gestire al meglio quella che probabilmente sarebbe la peggiore crisi dai tempi della guerra dello Yom Kippur. Crisi non soltanto militare, ma diplomatica: un’azione unilaterale e priva di un valido casus belli sarebbe infatti percepita, a livello internazionale, come un atto di aggressione.

Eppure la possibilità di un raid israeliano è concreta. Secondo indiscrezioni raccolte dal quotidiano britannico Daily Mail, sembra addirittura che Londra si aspetti un attacco ai siti nucleari iraniani tra Natale e l’inizio dell’anno (eventualità ritenuta abbastanza improbabile da alcuni esperti, dato le solitamente avverse condizioni meteorologiche di quel periodo). E in base a quanto riportato dall’Associated Press, Israele avrebbe appena testato con successo un missile a lungo raggio capace di raggiungere l’Iran.

Qualche israeliano di peso ha espresso la sua ferma contrarietà a un intervento. È il caso dell’ex capo di stato maggiore delle forze di difesa, Gabi Ashkenazi. O dell’ex capo del Mossad Meir Dagan, che ha definito un attacco contro le istallazioni nucleari iraniane «una cosa stupida».
Secondo Dagan portare a termine un’operazione così complessa sarebbe arduo persino per la formidabile aeronautica israeliana. Ma anche in caso di esito positivo dell’operazione, «la domanda più grande è che cosa succederà dopo. Ci sarà una guerra con l’Iran, che è una di quelle cose che sai come iniziano ma non come finiscono.»

L’Iran potrebbe reagire scatenando contro Israele una pioggia di missili, magari grazie al sostegno degli Hezbollah in Libano, e di Hamas a Gaza. Da Beirut il capo di Hezbollah Hassan Nasrallah si è già pronunciato: «Non faccio minacce, ma chiunque dotato di ragione può capire che un attacco israeliano-americano all’Iran, o un coinvolgimento militare in Siria, condurrà a una guerra regionale.»

Ovviamente gli israeliani, falchi inclusi, sono consapevoli che un intervento militare avrebbe conseguenze molto gravi. Per citare Barak, «la guerra non è un picnic.» E infatti in una lunga intervista radiofonica il ministro della difesa ha spiegato che nulla è stato ancora deciso; tuttavia «nessuna opzione dovrebbe essere rimossa dal tavolo», anche perché la reazione di Teheran sarebbe meno distruttiva di quanto generalmente si pensi: «mettiamo che finiamo in guerra [con l’Iran] contro la nostra volontà. Non ci saranno centomila morti, né diecimila e neanche mille. E Israele non sarà distrutta.» Parole destinate a confortare un elettorato sempre più convinto che l’Iran debba essere fermato, anche a costo di una guerra: in un sondaggio commissionato da Haaretz, è risultato che il 41 per cento degli intervistati appoggia l’attacco, il 39 per cento si oppone e il rimanente 20 per cento non sa.

Secondo Barak il mondo ha un’ultima occasione per bloccare l’Iran con «sanzioni letali coordinate globalmente.» Gran parte della leadership israeliana, però, non ritiene che le sanzioni siano, da sole, sufficienti a fermare l’Iran. La vera alternativa a un raid è dunque un’intensificazione delle “operazioni coperte” di cui il Mossad è maestro.
Negli ultimi anni l’intelligence ebraica avrebbe sabotato il programma nucleare di Teheran in vari modi: vendendo agli iraniani tecnologia difettosa; infettando i loro computer con dei virus informatici; assassinando alcuni degli eminenti scienziati coinvolti; forse addirittura provocando l’esplosione del 12 novembre nella base dei pasdran, dove è morto uno dei capi del programma missilistico iraniano.
Operazioni coperte, appunto. E sporche. Ma capaci di tenere a bada sia gli iraniani, sia i falchi del governo israeliano. Non si sa, però, ancora per quanto.

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