A Lusaka, capitale dello Zambia, si parla cinese. Il Sudan delle emergenze umanitarie è la seconda casa per i coreani. Nella Cambogia che fu di Pol Pot sbarcano, quasi per nemesi storica, gli sceicchi del Kuwait, mentre i petroldollari sauditi prendono la strada dell’Etiopia. La terza fase della globalizzazione e dell’outsourcing, dopo quella delle manifatture, negli anni ‘80, e quella delle tecnologie, nel decennio scorso, ha il volto aggressivo del land grabbing: piuttosto che comperare prodotti agricoli sui mercati mondiali, governi e multinazionali acquistano direttamente i terreni, li gestiscono in prima persona e riportano in patria il frutto dei raccolti.
Il fenomeno è cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi anni, fino ad attirare l’attenzione delle organizzazioni non governative e ad entrare nell’agenda ufficiale della Fao. Gli investimenti esteri nei terreni dei Paesi in via di sviluppo non sono certo una novità. Basta pensare alle banana republic dell’America Latina, rette ovunque da una piccola cricca di latifondisti locali ed investitori occidentali. Oppure all’assalto alle aziende agricole collettive che seguì il collasso dell’Urss.
Il land grabbing, però, ha altre caratteristiche. Anzitutto i protagonisti non sono unicamente dei privati, ma piuttosto governi e fondi sovrani. In secondo luogo, non vengono tanto da Occidente, ma da quelle potenze emergenti che stanno ridisegnando i rapporti di forza internazionali, spostando il baricentro verso l’Asia: Cina, Corea del Sud, Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti. Per capire la portata di questi movimenti economici basta leggere certi numeri. Secondo Oxfam, nell’ultimo decennio una superficie di 227 milioni di ettari, pari a sette volte l’Italia, ha cambiato proprietario. L’ong inglese ha analizzato circa 1.100 accordi relativi all’acquisizione di 67 milioni di ettari: il 50 per cento delle compravendite ha riguardato l’Africa, per un’area pari quasi alla superficie dell’intera Germania.
L’International Food Policy Research Institute, un think tank di Washington, ha calcolato che dal 2006 al 2009 sono stati stipulati contratti per una cifra che va dai 20 ai 30 miliardi di dollari, dieci volte il pacchetto di aiuti recentemente annunciato dalla Banca Mondiale, 15 volte il Fondo per la Sicurezza Alimentare predisposto dall’amministrazione Obama. Gli investimenti sauditi in Etiopia, per la produzione di frumento, orzo e riso, sono di poco inferiori agli aiuti alimentari messi in campo dal World Food Programme nello stesso Paese.
Dati che hanno allarmato la Committee on World food security della Fao, riunitasi il mese scorso a Roma. L’inviato speciale dell’Onu per il diritto all’alimentazione, Olivier de Schutter: ha avvertito: «La pratica dell’accaparramento delle terre minaccia la sicurezza alimentare per centinaia di milioni di persone, mettendo in pericolo i piccoli produttori agricoli. Dobbiamo trovare un accordo su alcune direttive riguardanti il possesso dei terreni e delle zone di pesca». Nel mirino dell’agenzia Onu ci sono i nuovi ricchi, in primo luogo l’Arabia Saudita, che ha concluso accordi per centinaia di milioni di dollari in Etiopia, Indonesia, Pakistan, Filippine, Sud Sudan. La Cina, invece, ha comprato vaste porzioni di terra in Camerun, Tanzania e Mozambico, per coltivare riso, in Uganda e Zimbabwe, per approvvigionarsi di cereali, e in una decina di altri Paesi, tra cui Filippine, Laos, Kazakistan. Il Kuwait ha acquistato grandi appezzamenti persino nel vicino Yemen, destinati ad allevamenti estensivi di pollame.
Ai fondi sovrani delle nuove potenze mondiali si unisce qualche grande corporation. Nel 2009 un accordo – poi stracciato – con la coreana Daewoo ha portato addirittura a un regime change in Madagascar. Ventimila contadini ugandesi, ha denunciato Oxfam, sono stati espulsi dalle loro terre per fare posto a un’azienda britannica, la New Forests Company, impegnata a piantare alberi in alcuni Paesi africani per vendere crediti di emissione di Co2 in Occidente.
Il rapporto dell’ong inglese si è focalizzato su alcune prede, Uganda, il neonato Sud Sudan, Honduras ed Indonesia. Ma si tratta di un fenomeno globale, che ha subito una brusca accelerazione dopo l’ondata inflazionistica del 2008, quando i prezzi delle materie prime schizzarono alle stelle.
Il primo obiettivo degli investitori, infatti, è quello di garantire la sicurezza alimentare dei propri cittadini, contro le fluttuazioni del mercato. In Asia la classe media cresce in maniera vertiginosa e reclama standard di vita sempre più vicini a quelli occidentali, nei Paesi arabi l’agricoltura si trova di fronte a difficoltà oggettive che rendono impossibile l’autosufficienza. La sicurezza alimentare inoltre – come ha insegnato la primavera araba – permette ai governi di disinnescare la minaccia di rivolte sociali.
L’outsourcing, però, ha anche altre ragioni, legate in primo luogo alla domanda di energia. Nel tentativo di superare la dipendenza dal petrolio, cereali come mais e soia non sono più semplici derrate alimentari. L’utilizzo di bio-carburanti mira a diversificare la produzione energetica, obiettivo degli investimenti cinesi in Congo e Zambia. Ci sono casi in cui il land grabbing viene utilizzato come strumento di oppressione nei confronti delle minoranze religiose. In Pakistan, ad esempio, viene sistematicamente utilizzato da grandi proprietari terrieri o potenti uomini di affari a danno di piccoli agricoltori cristiani o indù. L’associazione “All Pakistan Minorities Alliance” e il “Centre for Legal Aid, Assistance and Settlement” denunciano da tempo la “mafia dei latifondisti”, che si accaparrano con la violenza piccoli terreni, grazie alla complicità della polizia, in province come il Punjab e il Sindh.
La gran parte delle transazioni, però, avviene su base legale, tramite intese tra Stati. Questo modello ha dato luogo ad un dibattito molto acceso. Chi lo difende ritiene che i Paesi investitori forniscano denaro, tecniche e sementi nuove ad agricolture cronicamente in sofferenza. Chi lo attacca, come il segretario generale della Fao, Jacques Diouf, parla di neo-colonialismo, di spoliazione delle risorse naturali, di piccoli coltivatori espulsi brutalmente da terre coltivate per generazioni. I critici accusano gli Stati “aggressori” di uccidere definitivamente le produzioni locali, anche perché la manodopera utilizzata quasi sempre non è indigena, ma viene importata dai Paesi investitori. Gli accordi tra governi, insomma, servirebbero solo ad arricchire le casse governative, senza alcun beneficio per l’economia locale.
È vero che gli investitori non si limitano a depredare, ma costruiscono infrastrutture, strade, ponti, scuole. Tuttavia, come suggerisce l’Economist, si dovrebbero dotare di un codice di condotta, rispettando i diritti di proprietà e condividendo i benefici con la popolazione locale, senza ricorrere unicamente a lavoratori importati. E soprattutto, dovrebbero lasciare in loco una parte della produzione, tanto più se quei Paesi sono soggetti a crisi alimentari. L’immagine di un sudanese che muore di fame mentre tonnellate di grano prendono la via di Seul è l’argomento migliore per i detrattori del sistema.