Gli Stati Uniti negano ma stanno intervenendo in Somalia

Gli Stati Uniti negano ma stanno intervenendo in Somalia

A Washington negano: il Pentagono e la Cia non sono coinvolti. Eppure un portavoce dell’esercito keniota, il maggiore Emmanuel Chirchir, aveva confermato che dietro gli attacchi aerei contro i miliziani di al Shabaab, il gruppo fondamentalista legato ad al Qaeda che controlla il sud della Somalia, non c’erano solo le forze armate di Nairobi, ma imprecisati partner militari “stranieri”.

Principali indiziati i Francesi, ancora scossi dalla morte di Marie Dedieu – una donna paraplegica, rapita dai pirati somali e deceduta per mancanza di cure – ma soprattutto gli Americani, che da mesi si servono degli aerei senza pilota, i famigerati droni, per colpire in maniera chirurgica i leader qaedisti.

Tre settimane fa l’esercito keniota ha varcato il confine con la Somalia, per lanciare una grande offensiva anti-Shabaab. A muovere Nairobi sono stati i numerosi rapimenti contro cooperanti e turisti stranieri, che hanno colpito al cuore l’economia nazionale. Il ruolo del gruppo fondamentalista nei sequestri non è ancora provato. Ma è certo che sia nell’interesse del Kenya -e degli Stati Uniti- stabilizzare il traballante vicino, il cui debole governo di transizione, sostenuto dall’Occidente, non controlla buona parte del territorio nazionale e non riesce a mantenere l’ordine nella stessa Mogadiscio.

Con una manovra a tenaglia, Nairobi ha mosso all’assalto del porto di Chisimaio, una delle più grandi città somale, principale fonte di introiti per gli Shabaab. L’invasione keniota ha sorpreso tutti, perché lo stato dell’Africa orientale è celebre per le acque cristalline delle sue coste, non certo per la potenza di fuoco del suo esercito. Altri paesi dell’area, come l’Uganda o l’Etiopia, vantano un’esperienza maggiore in materia.

Molti hanno avanzato il sospetto che dietro l’operazione vi siano gli Stati Uniti, che già nel 2006 e nel 2007 avevano sostenuto l’avanzata con cui l’Etiopia era riuscita a cacciare da Mogadiscio le Corti Islamiche. La stampa keniota, in primo luogo il popolare Sunday Nation, non ha lasciato spazio a dubbi: «Gli aerei di Washington si sono uniti alla missione». D’altronde, il Kenya è uno dei principali alleati degli Stati Uniti nell’intero continente africano. Quando Bin Laden lanciò la propria sfida al gigante americano, decise di colpire, nel 1998, due ambasciate in territorio africano, quella di Dar er Salaam, in Tanzania, e quella di Nairobi, dove morirono più di 200 persone.

Washington sa che l’Africa è strategica, e non solo per le sue straordinarie risorse minerarie e petrolifere. La minaccia qaedista non viene più solo dall’Asia, dalle montagne inespugnabili dell’Afghanistan e del Pakistan. È tra lo Yemen e il Corno d’Africa che si concentrano adesso le preoccupazioni di Pentagono e Dipartimento di Stato.

Durante la presidenza Bush venne costituito l’Africa Command (Africom), responsabile per le operazioni e le relazioni militari con 53 paesi, ad esclusione del solo Egitto. L’obiettivo del comando unificato è tutt’oggi quello di coordinare gli sforzi nel continente nero, attraverso la creazione di una serie di installazioni strategiche.

Con l’amministrazione Obama c’è stato un ulteriore salto di qualità. Non è un caso che lo scorso 14 ottobre il presidente americano abbia annunciato l’invio di cento consiglieri militari in Uganda, per aiutare le autorità locali nella lotta contro il Lord’s Resistance Army, il famigerato gruppo ribelle, di ispirazione religiosa, guidato da Joseph Kony, che dai primi anni Novanta terrorizza l’intera regione centrafricana.

Questo esercito, la cui base operativa si trova nell’Uganda settentrionale, è tristemente celebre per le mutilazioni, i bambini-soldato strappati ai genitori, le ragazzine avviate sulla strada della prostituzione. La Corte Penale Internazionale dell’Aja ha accusato Kony di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità. Obama ha sottolineato come il Lord’s Resistance Army rappresenti ancora un fattore di instabilità: «Le atrocità commesse nella Repubblica Centrafricana, la Repubblica Democratica del Congo e il Sud Sudan hanno un impatto sproporzionato sulla sicurezza regionale».

I negoziati di pace con i ribelli sono naufragati nel 2008 e i ripetuti tentativi di catturare Kony, una primula rossa che si muove con disinvoltura tra l’Uganda e gli altri Paesi dell’area, si sono rivelati fallimentari. Per rassicurare l’opinione pubblica, il presidente americano si è premurato di assicurare che il ruolo degli Stati Uniti, in accordo con le nazioni ospitanti, sarà unicamente di supporto: «I nostri soldati si limiteranno a fornire informazioni, consigli e assistenza e non combatteranno contro il Lord’s Resistance Army, se non per motivi di auto-difesa».

Il commander-in-chief che sta per completare il ritiro americano dall’Iraq ed ha avviato l’exit strategy dall’Afghanistan non ha certo intenzione di impegnarsi in un conflitto nel continente nero, tanto meno in un anno elettorale. Ma il precedente del Vietnam, dove il coinvolgimento statunitense cominciò proprio con l’invio di consiglieri militari, è ancora un incubo nella memoria collettiva.

La decisione di Obama non è dovuta solo a motivazioni umanitarie, alla necessità di fermare le atrocità di Kony, definito «un affronto alla dignità umana», secondo una linea politica fortemente sostenuta dalla triade femminile di Washington, composta dal segretario di Stato, Hillary Clinton, dall’ambasciatrice all’Onu, Susan Rice, e da Samantha Power, consigliere speciale del presidente. La forza dei ribelli si è assottigliata nel corso degli anni e non restano che quattrocento combattenti. Il Lord’s Resistance Army non rappresenta una minaccia diretta agli interessi americani. Gli occhi di Washington, però, sono rivolti verso la Somalia, teatro di una guerra che gli Stati Uniti, non potendola combattere in prima persona, hanno affidato agli attacchi dei droni e agli eserciti dei Paesi alleati, in primo luogo l’Uganda.

L’impegno a debellare definitivamente uno spinoso problema interno ugandese sarebbe dunque un modo per compensare lo sforzo del presidente Museveni nella Somalia controllata dagli Shabaab. Lo scorso giugno il Pentagono ha inviato mezzi militari per un totale di 45 milioni di dollari all’Uganda e al Burundi, un altro Paese che contribuisce, seppur in maniera minore, al fronte anti-qaedista.

L’invio dei consiglieri, per quanto si tratti di un numero esiguo, è comunque un fatto rilevante, perché era dal 1993 -l’anno della tragedia dell’elicottero Black Hawk e della battaglia di Mogadiscio, in cui morirono 18 soldati- che i militari americani non mettevano piede sul suolo africano. La stessa sede di Africom si trova in Germania, a Stoccarda. Gli Stati Uniti mantengono una base nella piccola Gibuti, anche se non si tratta, in gran parte, di truppe da combattimento. Ma il Corno d’Africa sta diventando sempre più strategico, Nairobi e Kampala due alleati sempre più importanti. Qualche giorno dopo l’annuncio di Obama, il Washington Post ha rivelato che il Pentagono ha investito milioni di dollari per ripristinare un remoto aeroporto nella località di Arba Minch, nel Sud dell’Etiopia, dal quale decollano oggi i droni Reaper. Effettuano voli di ricognizione su Somalia e Yemen, dove controllano spostamenti e attività deilla rete qaedista.
 

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter