«Mai come in questo momento l’euro può fallire». Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001 ed ex vicepresidente della Banca Mondiale, sa che la crisi è arrivata ad una svolta decisiva. Per lui le sorti della moneta unica sono appese a un filo e con lei i destini dei singoli Paesi, Italia compresa. Uno scenario aggravato da alcune scelte sbagliate attuate in questi anni. «Le politiche di austerity promosse dagli stati europei sono un grave errore. I tagli indiscriminati fanno decrescere la domanda e rallentano la crescita. L’austerità da sola non salverà l’euro, anzi, lo sta affossando, portando l’Europa sull’orlo di una seconda recessione», sostiene Stiglitz, presente venerdì scorso a Milano in un private meeting organizzato dalla Columbia University. «L’unico modo per tornare a crescere è stimolare l’economia, cosa che gli stati europei hanno fatto molto poco e con interventi tardivi» spiega Stiglitz, secondo cui gli aiuti sono stati “too little, too late“.
Negli Stati Uniti il dollaro ha retto alla crisi. Che cosa manca al modello europeo per funzionare adeguatamente? «Due cose: la prima è un’autorità fiscale comune, in grado di garantire la moneta nei momenti più difficili. Nel caso europeo dovrebbe essere la Banca Centrale, l’unico ente in grado di intervenire di petto quando la situazione peggiora: ma so che a molti quest’ipotesi non va giù. Il secondo tassello mancante è la migrazione interna all’eurozona. Un fenomeno migratorio diffuso tra stato e stato è fondamentale, perché fornisce impulso alle economie. In Europa però migrare è molto difficile. Negli Usa in molti si spostano verso stati in cui l’economia è più florida. Ora tutti vanno in Texas, dove grazie al petrolio l’economia è solida. Poi, è chiaro, come avrete visto tutti a livello politico il Texas ha i suoi problemi» sorride scherzoso, con un chiaro riferimento alla figuraccia rimediata dal governatore Rick Perry in un dibattito televisivo di qualche giorno fa. «Negli Usa quasi nessuno vorrebbe vivere in Nord Dakota. La Grecia dovrebbe accettare il fatto che nessuno ci vorrà più rimanere a vivere, in futuro. Ma lo sappiamo, non sarà così, da voi la situazione è molto differente. Il problema di base è che l’euro, al momento del lancio, era un progetto politico incompleto. E che ancora oggi non si è riusciti a completarlo».
Stiglitz, celebre per le sue posizioni controcorrente sulla globalizzazione e sui mercati internazionali, non vede una via d’uscita a portata di mano. «La crisi è cominciata nel 2007 e nel 2017 i suoi effetti si sentiranno ancora. E c’è il rischio è che ne arrivi una seconda ondata», ammonisce. «Questo è uno scenario molto probabile, visto che non si sta facendo nulla per aggiustare le molte falle di questo sistema. Si rischia di incappare in vecchi errori: guardate cos’è successo a Dexia, la banca belga collassata poco tempo fa. Un attimo prima veniva ritenuta un punto di riferimento a livello continentale, un attimo dopo è andata in bancarotta. Può succedere la stessa cosa a molte altre banche, sia in Europa che negli Stati Uniti, facendoci ripiombare negli scenari del 2008».
Errori comuni, quindi, quelli che accomunano l’Europa agli Stati Uniti, dove comunque la situazione è ancora lontana dal risanamento. «Stiamo meglio dell’Europa, ma l’economia è ancora compromessa. Ci sono settori che continuano a risentire fortemente della crisi. Quello degli investimenti immobiliari, per esempio, è lontanissimo dai fasti di un tempo. La domanda di nuove case è calata. I giovani americani imitano sempre più spesso i colleghi europei e scelgono di restare a vivere con i propri genitori molto più a lungo..la mancanza di occupazione li ha resi dei bamboccioni». Che cosa ha sbagliato l’America? «L’errore fondamentale risale al 2007, quando nessuno realizzò che la nostra economia era arrivata ormai a un binario morto. Eravamo in una bolla, ma pochi riuscivano ad ammetterlo. “Si tratta solo di un po’ di pessimismo”, replicavano altri. La realtà però è che eravamo in una bolla e ne abbiamo sentito tutte le conseguenze». Per Stiglitz, in frangenti così delicati non è facile analizzare la situazione lucidamente. «Pensate alla Grande Depressione: ancora oggi, a distanza di ottant’anni, non riusciamo a metterci d’accordo su cosa avremmo o non avremmo dovuto fare..».
La crisi ha portato alla nascita di movimenti nazionali e internazionali di protesta. Il Nobel ha seguito fin dall’inizio la nascita della protesta degli Indignados e di Occupy Wall Street, di cui è stato uno dei teorizzatori. Già a maggio, in un articolo pubblicato su Vanity Fair, Stiglitz divideva infatti i cittadini in 1% e 99%. Oggi che i movimenti di Occupy si sono diffusi in tutto il mondo, ritiene che possano portare a qualche cambiamento? «Io credo di sì. La protesta ha trovato terreno fertile ovunque sia arrivata. Ciò indica chiaramente che il sistema ha fallito nel suo complesso». L’economista ha seguito le proteste in prima persona, da Piazza Tahrir a Zuccotti Park. «Mi sono stupito che negli Usa il movimento si sia formato così tardi. Ma dopo che sette milioni di persone hanno perso le loro case e che il reddito medio degli abitanti si è ridotto del 25% negli ultimi tre decenni, la gente ha capito che nel sistema qualcosa andava cambiato. Manca senso di giustizia: 350 milioni di persone vogliono le riforme, dieci banche si oppongono. Indovinate un po’ chi vince? Indovinate chi ne paga il prezzo? Così si forma l’instabilità, così nascono le proteste. Le persone stanno perdendo ogni tipo di fiducia nella politica. Prendete le ultime elezioni, ad esempio, in cui l’affluenza è stata del 20%: la stragrande maggioranza dei cittadini ha immaginato che con o senza il suo voto nulla sarebbe cambiato».