L’11 ottobre il governo degli Stati Uniti ha denunciato un presunto complotto iraniano per uccidere l’ambasciatore saudita a Washington. Complotto con una trama da film dei fratelli Coen, del tipo “Burn after reading”: Manssor Arbabsiar, ex venditore di auto usate e kebab nato in Iran ma naturalizzato americano, riceve l’incarico dell’omicidio dal cugino e da altri ufficiali della Forza Quds; cerca quindi di appaltare l’incarico ai membri di un cartello della droga messicano, Los Zetas, ma per sua sfortuna i narcos sono in realtà informatori della Dea, e lui viene arrestato.
Che un simile complotto abbia dell’incredibile lo ha ammesso anche il direttore dell’Fbi, Robert Mueller: «Sembra una sceneggiatura di Hollywood, ma il [suo] impatto sarebbe stato molto reale, e sarebbero state perse molte vite». Il Segretario di Stato Hillary Clinton, ancora più dura, ha tuonato: «Questo complotto è stato una flagrante violazione del diritto internazionale e americano […] l’Iran deve rispondere delle sue azioni». Gli iraniani, a loro volta, parlano sì di complotto, ma statunitense. Secondo un portavoce del presidente Mahmud Ahmadinejad, «il governo americano è impegnato a fabbricare una nuova messinscena. La storia ha già dimostrato che il governo e la Cia hanno grande esperienza in merito». Lo stesso presidente iraniano, in un’intervista ad Al Jazeera, ha retoricamente chiesto: «Perché gli iraniani dovrebbero andare negli Stati Uniti e uccidere l’ambasciatore di un Paese amico? Perché? Cosa ci guadagneremmo?».
La Guida suprema Ali Khamenei, pur essendo in rotta di collisione con l’ex protetto Ahmadinejad, è dello stesso parere: «Gli Stati Uniti ci accusano costantemente e ripetutamente, ma ciò che dicono allo scopo di isolarci è inutile, e alla fine sono loro a isolarsi». E per l’ambasciatore iraniano alle Nazioni unite, Mohammad Khazaee, le accuse americane sono semplice «propaganda guerrafondaia». Le parole di Khazaee possono peccare di enfasi. Tuttavia in Iran sono molti a paventare la possibilità di un intervento militare (occidentale o di altre nazioni) contro il Paese. Non a caso è da anni che il regime giura di voler “tagliare la mani” a ogni aggressore. La notizia del presunto complotto contro l’ambasciatore saudita a Washington non ha fatto solo infuriare americani e iraniani, seppur per motivi diversi. Ha destato grande allarme nel Vecchio Continente.
Gli europei si sono schierati al fianco degli Stati Uniti, ma con toni diversi: risoluta Londra («Siamo in stretto contatto con le autorità americane e lavoreremo con gli Usa, il resto d’Europa e l’Arabia Saudita per concordare una risposta internazionale»), magniloquente Parigi («La Francia considera ciò una questione estremamente seria e una scandalosa violazione del diritto internazionale»), asciutta Berlino («Il governo federale chiede al governo iraniano una spiegazione esauriente delle accuse»). Più prudente Roma. In un comunicato stampa si legge: «Il Governo italiano segue con grande preoccupazione le notizie su un presunto complotto per uccidere l’ambasciatore saudita a Washington, che vedrebbe coinvolti, secondo quanto comunicato dalle autorità statunitensi, elementi riconducibili ad apparati iraniani […] Se i fatti fossero confermati, si tratterebbe di una grave responsabilità, che potrebbe comportare serie conseguenze».
Ben più tiepida la reazione di molti esperti occidentali. Per esempio Bob Baer, ex agente della Cia e grande conoscitore della geopolitica mediorientale, non ha nascosto il suo scetticismo in un’intervista alla Cnn: «Ci sono pochissimi gruppi migliori, sul piano operativo, della Forza Quds. Sanno quello che fanno. I soli agenti per procura che usano sono quelli che hanno selezionato con grande cura. Non lasciano che i loro cittadini siano coinvolti».
Linkiesta ha provato a sentire il parere di due autorevoli studiosi. Per Leonard Binder, distinguished professor di scienze politiche alla Ucla, «il complotto per assassinare l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti appare provocatorio e implausibile, nonostante l’insistenza ufficiale che sia reale, e nonostante gli iraniani dichiarino che il complotto è un prodotto dei Mujahidin-i-Khalq [un gruppo in lotta con il regime]. Sono incline a pensare che il complotto possa essere stato ordito all’interno dell’organizzazione Kuds, ma forse da una fazione radicale che sta cercando di rafforzare la propria posizione all’interno di quest’organizzazione sempre più dominante».
Secondo quanto ipotizza Ervand Abrahamian, distinguished professor di storia e politica iraniana e mediorientale al Baruch College della Cuny (e autore del saggio “Storia dell’Iran”, edito in Italia da Donzelli), «i servizi di intelligence di Iran e Usa si stanno rendendo la pariglia. L’anno scorso i primi ingannarono gli Stati Uniti facendogli credere che un loro agente avesse defezionato. Quello fece poi ritorno in Iran raccontando di aver incontrato Biden [il vicepresidente americano] e molti altri, e che tutti parlavano di rovesciare il regime. Per il regime fu un trionfo. Gli Stati Uniti ora si stanno prendendo la rivincita, mandando un truffatore in Iran per adescare l’intelligence iraniana con qualche tipo di accordo (probabilmente per comprare pezzi di ricambio) e poi trasformando il tutto in un complotto omicida».
D’altra parte è difficile credere che Arbabsiar sia un fanatico pronto a tutto. Anzi. Secondo il New York Times, che ha raccolto le testimonianze di amici e conoscenti del presunto terrorista, Arbabsiar sarebbe un maneggione disordinato, molto più interessato al denaro che alla politica. Un divorziato carico di debiti, con un debole per l’alcool e la marijuana. Insomma, non proprio il genere d’uomo a cui affidare una missione pericolosa come assassinare l’ambasciatore saudita a Washington. In un articolo per il Christian Science Monitor Scott Peterson ha raccolto le testimonianze di autorevoli esperti, tutti alquanto scettici. Altri giornalisti si sono spinti più in là. Max Fisher di The Atlantic, ad esempio, ha scritto un post significativamente intitolato «Would Iran really want to blow up the Saudi ambassador to the US?».
Che il complotto sia stato ordito dai massimi vertici iraniani sembra improbabile (anche se non è certo impossibile). Soprattutto, mancano le prove. È plausibile, come ha ipotizzato il professor Binder, che una fazione della Forza Quds cerchi di superare in attivismo oltranzista le altre. In fondo si tratta di una forza speciale dei già molto oltranzisti Guardiani della Rivoluzione: accusata di appoggiare gli Hezbollah, la guerriglia sciita irakena e i talebani, a detta dell’Unione europea «la Forza Quds è coinvolta nell’approvvigionamento e nel sostegno del regime siriano per la repressione delle proteste in Siria […] Ha fornito assistenza tecnica, materiale e sostegno ai servizi di sicurezza siriani nella repressione dei movimenti di protesta civili».Né stupisce che una fazione della Forza Quds possa cercare di condizionare la politica estera iraniana con attentati e complotti.
Secondo quanto riferito dal generale americano David Petraeus, attuale direttore della Cia, nel 2008 il capo della Forza Quds, Kassim Suleimani, gli mandò un messaggio dove asseriva che in Irak, Libano, Gaza e Afghanistan era la Forza Quds a dettare la politica della Repubblica Islamica. D’altra parte il potere iraniano non è un blocco monolitico. A maggior ragione con le parlamentari del 2012 (e le presidenziali del 2013) in vista: le fazioni sono molteplici, e all’interno di ognuna si agitano falchi e colombe, tradizionalisti e pragmatici, radicali e riformisti. Una parte dei Guardiani della Rivoluzione, grandi sponsor di Ahmadinejad (che nel 2013 non potrà ricandidarsi, almeno secondo il dettato costituzionale), è ai ferri corti con il clero ultraconservatore capeggiato dalla Guida suprema Khamenei, e si sa che quando infuria la lotta per il potere, le teste calde hanno più margini d’azione. Che Ahmadinejad risponda prima di tutto ai Guardiani è un fatto. Secondo un cablo americano divulgato da WikiLeaks, nel gennaio del 2010 il capo dei pasdaran, il potente Mohammad Ali Jafari, avrebbe addirittura schiaffeggiato il presidente.
Nel suo braccio di ferro con Ahmadinejad, Khamenei è arrivato a far arrestare, a maggio, alcuni stretti collaboratori del presidente (incluso il consuocero Mashaei). E pochi giorni fa ha parlato di abolire l’elezione diretta del presidente, pur collocando tale decisione in un «futuro distante». La dichiarazione non deve essere piaciuta a molti Guardiani. Nei loro piani ad Ahmadinejad (ex pasdaran) dovrebbe succedere un altro uomo fidato. In questo modo quello che l’esperto di Medio Oriente Rasool Nafisi ha definito «un normale governo di sicurezza militare con una facciata di clericalismo sciita», si consoliderebbe una volta per tutte.
La difficile situazione politica e sociale del Paese non aiuta però i Guardiani, e qualcuno potrebbe pensare di placare il diffuso malcontento facendo appello al patriottismo. Anche perché la popolazione è sempre più nervosa, complice soprattutto l’economia stagnante. Quest’anno, secondo le stime del Fmi, il Pil iraniano crescerà di appena il 2,5%. Un dato misero se paragonato alle prestazioni delle altre potenze regionali: dal +6,5% saudita al +4,8% israeliano, passando per il +6,6% turco. La disoccupazione è alta, e galoppa l’inflazione, con gran rabbia degli influenti bazarì, i mercanti dei bazar. La soluzione del governo iraniano per contrastare il rialzo dei prezzi, cioè comprare merci a basso costo da India e Cina, e far arrivare manodopera clandestina dall’Afghanistan, non fa che aggravare i problemi.
Secondo “Jalal”, (un iraniano residente in Italia che preferisce non rendere pubblico il suo vero nome), «la situazione economica in Iran peggiora di giorno in giorno. La colpa è dell’incapacità e dell’egoismo delle persone al potere. Con i profitti del petrolio avremmo potuto essere uno dei popoli più ricchi del mondo ma non è così, perché i delinquenti che controllano l’economia non investono mai questi soldi nelle industrie iraniane, né li portano “alle porte della gente” come diceva l’Imam Khomeini nei primi giorni dopo la Rivoluzione del 1979.»La più insoddisfatta è la borghesia filo-occidentale. Penalizzata sul piano economico e politico, sgradita a un regime che ha soffocato nel sangue le proteste del 2009, sembra aver perso ogni speranza.
«Ho parlato con molti giovani acculturati lì, e il clima è di oppressione e sconforto. – racconta a Linkiesta un professore universitario italiano che è stato di recente a Teheran, e preferisce rimanere anonimo – Tutti quelli con cui ho parlato non tollerano la mano pesante del governo sulla loro vita privata. Ahmadinejad è visto criticamente, anche se le sue affermazioni contro Israele non mi sembra vengano prese molto sul serio.» Con tono divertito il docente aggiunge: «In Iran si suole dire che un terzo della popolazione sta con gli ayatollah (perché ne riceve benefici concreti), un terzo è assolutamente contrario e un terzo sta in mezzo. Penso però che nemmeno il terzo ostile al regime accetterebbe mai un’aggressione al Paese». Quello che dice il professore trova riscontro nelle parole di “Jalal”: «Secondo me gli Stati Uniti sfruttano qualsiasi occasione per giustificare i loro attacchi agli Stati musulmani, e in particolare all’Iran.» Il regime è sì autoritario e anti-democratico, continua “Jalal”, ma non rappresenta il popolo iraniano, che si batte pacificamente per la libertà. «Dovrebbe bastare questo per dissuadere Washington dal pianificare un attacco all’Iran, o anche solo ai suoi siti nucleari».
Di nuovo emerge il timore di un conflitto. Perché la mini-guerra fredda in corso tra Iran da un lato, Stati Uniti e Arabia Saudita dall’altra, spaventa gli iraniani comuni, e li induce a pensare che basterebbe poco per trasformarla in una guerra calda. Lo stesso presidente Ahmadinejad, nella già citata intervista ad Al Jazeera, ha cercato di fugare simili timori: «Non mi aspetto che una cosa simile [una guerra] accada – ha dichiarato – Sì, ci sono certi individui nell’amministrazione americana che hanno un simile desiderio, ma a tenergli testa ci sono alcune persone ragionevoli che sanno che ciò non dovrebbe accadere».
Probabilmente la paura iraniana nasce pure dalla dolorosa consapevolezza che, sul piano internazionale, la Repubblica islamica è sempre più isolata. Come spiega a Linkiesta il professor Abrahamian, «la posizione geopolitica dell’Iran è seriamente minacciata. In passato gran parte di essa dipendeva dalla Siria, ma con la Siria nel caos, l’Iran non ha davvero nessun autentico alleato». Con il regime siriano in gravissime difficoltà, le forze occidentali in tutta la regione e un’Arabia saudita sempre più ostile, l’Iran si sente quasi accerchiato. Grazie ai cablo diffusi da WikiLeaks si è saputo che nel 2008 il monarca saudita incitava gli Stati Uniti a «tagliare la testa del serpente [iraniano]». E questa primavera la rivolta della popolazione sciita in Bahrein (la 14esima provincia, secondo la propaganda iraniana) è stata repressa dalla locale monarchia sunnita con il cruciale “sostegno fraterno” dei vicini sauditi: sui blindati che pattugliavano le strade di Manama, è noto, sventolavano bandierine del Bahrein e dell’Arabia saudita.
Il presunto complotto non fa altro che rendere più tesi i rapporti tra Teheran e Riyad. Nonostante le dichiarazioni ufficiali saudite siano state all’insegna della moderazione (come da prassi per un regno che ai proclami populisti preferisce le operazioni dietro le quinte), in realtà a Riyad sono tutti furibondi. Il principe Turki al Faisal, ex capo dell’intelligence saudita ed ex ambasciatore a Washington, ha usato toni assai duri: «Questo [atto] è inaccettabile. Qualcuno in Iran dovrà pagare il prezzo […] non importa quanto in alto sia». A rendere tutto ancora più difficile è il discusso programma nucleare iraniano, che preoccupa non solo l’Arabia saudita, ma tutti gli Stati della regione, a cominciare da Israele. Da anni la Repubblica Islamica è accusata di volersi dotare della bomba atomica, e Riyad ha già minacciato, anche per bocca del principe al Faisal, che potrebbe fare lo stesso. Proprio due giorni dopo la notizia del presunto complotto contro l’ambasciatore saudita, Le Figaro ha pubblicato un articolo, “L’Iran prépare une bombe nucléaire”, che ha avuto echi in tutto il mondo. Secondo il quotidiano francese, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) avrebbe prove del carattere militare del programma nucleare iraniano, finalizzato alla bomba atomica. Se le indiscrezioni del quotidiano francese fossero confermate, l’Iran si troverebbe ancora più isolato, e in balia degli oltranzisti. In Occidente, poi, i falchi avrebbero ancora più argomenti a favore della linea dura. Soprattutto a Washington.
In realtà negli Stati Uniti c’è già ora molta preoccupazione. Soprattutto al Congresso. Ileana Ros-Lehtinen, repubblicana della Florida a capo del Comitato affari esteri della Camera dei rappresentanti, ha dichiarato: «Attraverso il fallito complotto, è diventato chiaro per chiunque avesse ancora dei dubbi che il regime iraniano userà tutte le opzioni disponibili per minacciare la sicurezza americana, i nostri interessi, e i nostri alleati. […] Lasciatemi essere franca: questo omicidio su commissione pianificato deve essere una sveglia per quanto riguarda la determinazione e la capacità del regime iraniano. Se oggi il regime si sente abbastanza sicuro da pianificare un attacco negli Stati Uniti, immaginate quanto più impudente diventerebbe la sua aggressione se avesse armi nucleari». Peter King, repubblicano a capo del Comitato Sicurezza Interna della Camera, ha definito il presunto complotto «un atto di guerra». Michael McCaul, rappresentante texano di un certo peso, si è unito al coro, dichiarando che «la Prima Guerra Mondiale iniziò a causa dell’omicidio di un diplomatico straniero». Pur tra mille cautele pure il democratico Carl Levin, potente senatore del Michigan, ha ammesso con i reporter che il presunto complotto iraniano potrebbe considerarsi un atto di guerra, definendolo «una minaccia dannatamente seria agli Stati Uniti». Un altro congressista del Michigan, il repubblicano Mike Rogers, a capo del Comitato permanente intelligence della Camera, ha dichiarato che non bisognerebbe escludere la forza militare come risposta. Per ora l’amministrazione continua a vedere nelle sanzioni lo strumento più efficace per contrastare Teheran. E pragmatici come Lawrence Korb, ex funzionario della difesa sotto Reagan e oggi senior fellow del think-tank Center for American Progress, invitano tutti alla cautela. «È imperativo che gli Stati Uniti non reagiscano in modo eccessivo, ma rispondano razionalmente e con efficacia». Tuttavia lo stesso presidente Obama ha dichiarato che «nessuna opzione è fuori dal tavolo». Neanche quella militare, dunque.
«Un’azione militare sarebbe irresponsabile – dice a Linkiesta il professor Abrahamian, e in merito alle sanzioni commenta – Funzionano se colpiscono gli individui, contro un intero Paese sono controproducenti». Ancora peggio un intervento militare, ad esempio un bombardamento contro i siti nucleari sospetti. Secondo Korb, «anche se gli Stati Uniti non dovrebbero togliere dal tavolo nessuna opzione nel rispondere all’aggressione iraniana, un attacco militare sarebbe probabilmente controproducente». A detta di “Jalal” un intervento danneggerebbe soprattutto i cittadini iraniani che sognano la libertà. «Il popolo non vuole alcun intervento militare da parte di nessuno. Preferisce conquistare ciò che vuole in un modo più civile e pacifico».
Leggi anche: