E dunque, l’ora delle dissociazioni e delle prese di distanze è ormai arrivata. Quelle del “subito prima” e del “subito dopo” in fondo si somigliano. Quando un blocco di potere si sgretola, importa poco se i pezzi che perde si sono staccati quando Lui era quasi morto o appena morto. I primi aiutano la tattica di chi lavora alla sostituzione, ma la sostanza umana e politica degli uni e degli altri è la stessa. Conta molto, invece, ricostruire in modo chiaro, da subito, che responsabilità hanno avuto le singole personalità in quella storia politica e nei suoi risultati: soprattutto se i risultati sono quelli di un fallimento.
Se usiamo questi occhiali, una cosa dobbiamo dirla subito: Giulio Tremonti non è Gabriella Carlucci, non è Mimmo Scillipoti e neanche Renato Brunetta. Non è uno qualsiasi. Giulio Tremonti è stato il vero ideologo di governo del berlusconismo. È stato il più duraturo e fondamentale punto di unione tra idee – sempre mutevoli – e azione politico-amministrativa. Tra la retorica e il decreto legge. Lo è stato nel 2001, e lo è stato nel 2008. Lo è stato nella costruzione e manutenzione del rapporto con la Lega Nord di Umberto Bossi, nella stagione dell’insofferenza fiscale e dell’anti-europeismpo e in quella del rigore dei conti da sostenere nelle sedi europee. Lo è stato quando il Pdl coccolava i produttori e quando Bossi faceva le barricate per i pensionati. Lo è stato quando c’era voglia di uno stato leggero che aiutasse la competizione, e quando la crisi faceva venir voglia di un welfare robusto, costasse quel che costasse. Lo è stato – sempre, sempre – quando c’era da decidere una politica fiscale, da firmare una finanziaria, un Dpef o una manovra correttiva. Lo è stato apertamente e dichiaratamente: “sono l’unico ministro col portafoglio”, amava ripetere.
Fa particolarmente impressione, per questo, vedere Giulio Tremonti che un giorno sì e l’altro pure lascia correre la sua preoccupazione, il suo distacco, il suo disprezzo, i suoi inviti minacciosi a mollare tutto, come se il Berlusconi di governo non fosse roba sua. Tace a lungo, come se non si fosse legato a quella poltrona quando tutti lo volevano morto, e poi parla a mezza bocca senza mettere mai il disappunto nero su bianco, magari con un atto formale di dimissioni. La frase di venerdì – “Silvio vattene o sarà un disastro”, naturalmente subito smentita – è solo l’ultimo episodio di una infinita serie di segnali. Lanciati dal super-Ministro prima durante e dopo che Tremonti ha firmato tutti i provvedimenti economici dei governi Berlusconi.
In episodi come questo sta la cifra di un ministro che, se non fosse esploso il caso Milanese, sarebbe forse perfino riuscito a convincere che era lui, ferreo custode dei nostri conti, l’uomo giusto per portarci fuori dal guado. Quello di Tremonti è solo il più evidente e macroscopico caso tra quelli che – avendo molto dato e molto di più ricevuto, dal premier ancora in carica – hanno tentato per tempo di accreditarsi come se fossero tutt’altro. A dare l’immagine della serietà in questo finale di berlusconismo, peraltro, basta poco. Ma per lui, naturalmente, la critica pesa doppio e la memoria deve essere raddoppiata, dato che la sua funzione storica, all’interno del berlusconismo, è strutturale e decisiva.
Insomma, l’ultimo che può chiamarsi fuori da questo fallimento, adesso che tutto è pronto al crollo, si chiama Giulio Tremonti. Quando domani si chiederanno altri sacrifici agli italiani e magari di pagare una tassa patrmoniale, sarà bene ricordarsene.