BRUXELLES – Golden share addio. Il prezioso scudo antiscalata che protegge i colossi ex statali Eni, Enel, Finmeccanica e Snam Rete Gas è destinato a sparire una volta per tutte. Un problema che riguarda anche Telecom che ora è privata ma in cui le regole dello statuto, dice la Commissione, rientrano in questo ambito. Siamo in tempi di gravissima crisi, con l’Italia a rischio default e le privatizzazioni – è il diktat – devono esser completate al più presto, senza ostacoli di sorta. Così da Bruxelles arriva a Mario Monti appena insediato un ultimatum: o sarà modificata la legislazione italiana sui poteri speciali, o l’Italia sarà deferita alla Corte di giustizia Ue entro un mese. Poiché nel 2009 i giudici europei hanno già dato ragione una volta alla Commissione, adesso l’Italia rischierebbe una multa. E sono tanti soldi: la scorsa settimana il commissario al Mercato Interno Michel Barnier ha proposto per la Germania, a causa della cosiddetta “Lex Volkswagen” (i poteri di veto detenuti dal land della Bassa Sassonia nel colosso automobilistico) una multa di 31.114,72 euro al giorno dalla prima sentenza della Corte (23 ottobre 2007) fino al giorno della modifica della legge.
A Bruxelles giurano che la coincidenza temporale è puramente casuale, e che la decisione del deferimento è arrivata al termine di una lunga procedura. E’ probabile che sia così, ma rimane che la congiuntura è del tutto particolare, e Mario Monti, spiegano a Bruxelles, ha giurato che provvederà al più presto a correggere la normativa, ed è per questo che la Commissione ha concesso di aspettare un mese prima dell’effettivo deferimento.
La Commissione contesta alla normativa italiana la clausola – inserita anche negli statuti delle aziende già citate (tranne Snam Rete Gas) – secondo la quale allo Stato possono essere conferiti poteri speciale per salvaguardarne «interessi fondamentali». A Barnier non piace soprattutto il potere di veto del Tesoro sulla possibile acquisizione di titoli delle società oltre la soglia del 5% dei diritti di voti, su accordi degli azionisti (sempre al di sopra del 5%) e su alcune decisioni aziendali su fusioni e scissioni. Quindi la Ue se la prende con la normativa che fissa dei diritti speciali, e non con il fatto che lo Stato possa avere una quota, che invece è suo diritto essendo un investitore come un altro.
Non è che la golden share o comunque i diritti speciali siano sempre e comunque vietati, ma, spiegano alla Commissione, essi devono essere molto ben circostanziati e motivati. E non è il caso della normativa italiana. Non a caso, la prima sentenza di condanna in assoluto mai emessa dalla Corte di Giustizia Ue per un caso di golden share, risalente al 2000, era proprio contro l’Italia, e riguardava, guardacaso, la privatizzazione di Eni e Telecom Italia. Quella però dirimente per la situazione attuale, è la sentenza del 26 marzo 2009, che ha condannato l’Italia, dando ragione alla Commissione, non tanto per il principio in sé dei diritti speciali, ma perché la normativa in vigore, scrivono i giudici Ue nella sentenza, «non contiene precisazioni sulle circostanze in cui i criteri di esercizio del potere di veto possono trovare applicazione», così che «gli investitori non sanno quando tale potere di veto possa trovare applicazione e i criteri da esso fissati non sono dunque fondati su condizioni oggettive e controllabili». Sono violati così due principi chiave del mercato interno: diritto del libero stabilimento e libera circolazione dei capitali.
In realtà, spiegano alla Commissione, la Corte Ue ha dato ragione a Bruxelles nella massima parte dei ricorsi contro varie forme di golden share in numerosi stati membri. Ed è per questo che questo strumento di veto sta progressivamente sparendo. Dalle sentenze, in effetti, emerge con chiarezza quanto siano rigorosi i paletti per poter introdurre i poteri speciali: questi «devono essere applicati in modo non discriminatorio; devono essere giustificati da imperative esigenze di interesse generale; devono essere idonei ad assicurare il raggiungimento dell’obiettivo che perseguono e non possono andare oltre quello che è strettamente necessario per conseguirlo». In generale, spiegano ancora alla Commissione, si è visto che praticamente mai è stato riconosciuto il diritto di veto per aziende energetiche, solo in rarissimi casi in società specializzate nel difesa. Nel caso delle grandi società italiane ex statali, nessuno dei criteri indicati dalla Corte Ue, secondo la Commissione, è rispettato. «La Commissione – recita una nota – ritiene che le restrizioni riguardanti le acquisizioni e i patti tra gli azionisti, oggetto della procedura in questione, siano inadeguate per proteggere l’obiettivo di salvaguardare gli interessi vitali nello Stato. Inoltre, i criteri per l’esercizio dei poteri speciali non sono sufficientemente precisi e potrebbero comportare un’eccessiva discrezionalità da parte dello Stato». I grandi investitori internazionali possono cominciare a leccarsi i baffi.
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