Tony Blair, in Italia in questi giorni per convegni e presentazioni della sua Fondazione sulla libertà religiosa, è un signore di 58 anni “baby pensionato” dalla politica dopo un decennio (1997-2007) di governo incontrastato in Gran Bretagna all’insegna del New Labour e della “Terza Via”. Ha ancora il fascino della sua personalità e la capacità di visione strategica che forse l’Europa non ha saputo “usare” e capitalizzare fino in fondo. E se appena si ripensa a quell’epoca non si può dimenticare quanta benevola invidia aveva suscitato anche da noi in tutto l’arcipelago riformista (e non solo a sinistra) per la sua modernità sociale, anche perché aveva avuto la fortuna di “arrivare dopo la Thatcher”.
E cioè dopo i 18 anni di governo conservatore quando la Lady di ferro aveva rivoltato con inusitata durezza il Paese, stravolgendo il welfare, riducendo il potere dei sindacati, ma anche intervenendo su fisco e previdenza e soprattutto sulle incrostazioni burocratiche accumulatesi per decenni e liberalizzando il sistema con cure da cavallo, socialmente dolorose.
Per il giovane leader laburista, arrivato al potere dopo un lungo digiuno, fu allora agevole e popolare temperare il “liberismo selvaggio” che aveva dimagrito lo Stato e tagliato gli sprechi della spesa pubblica, trovando le risorse necessarie per le correzioni di rotta e la reintroduzione di una più moderna ed efficiente equità sociale, durata almeno fino alla crisi finanziaria che sta devastando adesso il Regno Unito in proporzioni almeno simili alle nostre.
Ecco, “arrivare dopo la Thatcher” è stato per anni il sogno inconfessato di tante “anime belle”, di molti affascinanti progetti di governo all’insegna di una modernità socialmente sostenibile che hanno riempito archivi e biblioteche di illustri pensatoi. Il problema è che in Italia il “cattivo” e cioè la Thatcher non l’ha mai voluto o potuto fare nessuno.
E anche le diverse stagioni di Prodi, che pure avrebbe temperato le durezze anglosassoni con misure ispirate all’economia sociale di mercato di stampo mitteleuropeo, si infransero contro le resistenze corporative e il peso degli apparati. Qualche iniezione di liberismo (dalle riforme Bassanini alla flessibilità di Treu fino alle “lenzuolate” di Bersani) è stata in sostanza più un tentativo regolarmente interrotto che ha solo scalfito in minima parte le diseconomie accumulate nello statalismo sprecone. E non riuscendo neppure a spalmare tutele e garanzie del sistema sociale in un equilibrato rapporto tra le generazioni.
Il “cattivo” poteva essere l’imprenditore Berlusconi, che ad ogni vittoria elettorale prometteva l’avvento di una coraggiosa “rivoluzione liberale”. E, sotto sotto, anche i suoi avversari hanno sperato che almeno un po’ ci riuscisse. La disillusione del suo elettorato e le convulsioni del suo partito dimostrano adesso la portata del fallimento. E anche l’affannosa prova di dar seguito al duro scambio epistolare con la Bce e la Commissione di Bruxelles è arrivata soltanto alla fine dei tempi supplementari.
Anche se il mondo è molto cambiato dagli anni della Ironlady proprio la globalizzazione e il macigno del debito pubblico segnalano per l’Italia che i nodi sono arrivati al pettine tutti insieme e che le riforme indifferibili non hanno più margini temporali. Non è un caso, se si permette un minimo di ironia, che la riverenza e gli osanna che circondano il severo professor Monti e il suo arduo tentativo di “rompere i privilegi” tradiscano in realtà l’ansiosa consapevolezza che è l’ultimo “cattivo” che ci resta. E che con il governo tecnico “deve” per forza riuscire. Altrimenti, dopo le prossime elezioni, sarà proprio impossibile “venire dopo la Thatcher”.
* ex direttore della Padania