Forse non è da chiedere a Santa Klaus o a Gesù Bambino, ma se un dono è da aspettarci da noi stessi e da tutti insieme è quello di riprendere la voglia, il piacere, la felice anarchia del “cantare”.
Certo siamo travolti, se non assordati da musica (e chiacchiere) a tutto volume che fluisce dalle auto in coda, dalle radio sempre accese, dagli auricolari che isolano dal resto del mondo. Ma è sempre un sottofondo che ci riduce a pubblico passivo, a platea anonima, se non a gregge puramente ricettivo. Ed è sparita l’abitudine, il coraggio, la libertà di cantare: non solo nel privato delle quattro mura (magari sotto la doccia), ma in strada, in piazza, nel luogo di lavoro e sui trasporti dove scorre la vita.
Eppure nel nostro DNA di popolo c’è eterna e insopprimibile la natura del canto. Ne abbiamo un patrimonio (canti di lotta e di passione, di fede e di piazza, di lavoro e di amore) sempre rinnovato dalla creatività di nuove generazioni. E pure di canzonette che accompagnano ogni gioventù e sono “colonna sonora” di ogni stagione, se imparate ed eseguite dovunque.
Dicono seri sociologi che in un Paese dove pure la musica è cenerentola nell’istruzione esistono almeno centomila cori censiti e registrati. Forse è una “Italia minore”, ma tradisce una tenace e profonda sensibilità che è parte della natura umana e non può lasciarsi atrofizzare dalle consuetudini, dalla tecnologia, dalla modernità. In fondo, nel genere animale, siamo gli unici esseri viventi capaci di arrossire, di sorridere e soprattutto di cantare. E cantare fa bene…
Giuseppe Baiocchi