Wikileaks ha appena dichiarato guerra all’industria della sorveglianza elettronica, accusandola, attraverso la voce di Julian Assange, di «vendere la propria tecnologia ai regimi più repressivi con lo scopo di intercettare intere popolazioni». A supporto di questa tesi, il controverso portavoce ha annunciato oggi l’inizio della pubblicazione degli “Spy files”, documenti riservati che svelano numeri e traffici di una delle industrie più segrete del mondo.
Questa volta però non é solo Wikileaks a portare avanti una crociata attraverso le sue fonti segrete: “The Spy Files” è infatti il risultato di una collaborazione con organizzazioni per la tutela dei dati personali come Privacy International, centri di giornalismo investigativo e nuovi e vecchi media, come il francese Owni, il Washington Post ed il nostrano L’Espresso. Secondo l’inglese Bureau of Investigative Journalism (BIJ) sono almeno 160 le compagnie occidentali che commerciano questa tecnologia in piu’ di 25 paesi.
Libia, Egitto e Sirya. Le prove più scottanti per ora sembrerebbero provenire dalla Francia. Secondo Jean Marc Manach di Owni, la compagnia Amesys avrebbe infatti intrattenuto una proficua relazione con il regime di Gheddafi fin dal 2006, quando gli avrebbe venduto un software di nome Eagle. Il sistema sarebbe stato in grado di tracciare e spiare le mail di chiunque fosse poco gradito al dittatore, sia all’interno del paese che oltre le frontiere libiche. «Siamo sicuri che Sarkozy fosse al corrente delle relazioni di Amesys con Gheddafi, anche se non sappiamo se conoscesse l’oggetto del commercio». Il giornalista francese ha poi mostrato come lo stesso manuale d’uso di Eagle contenesse pseudonimi ed indirizzi mail di oppositori come Mahmud Nacua, attuale ambasciatore libico a Londra, e Atia Lawgali, Ministro della cultura del Consiglio Nazionale di Transizione.
Ma la Francia non è certo sola al centro del mirino. Una precedente inchiesta del BIJ aveva gia’ messo in luce come la Siria utilizzasse tecnologia prodotta dalla californiana Blue Coat Systems per censurare le informazioni su internet. Poco dopo, Bloomberg aveva puntato il dito sull’italiana Area, responsabile dell’installazione di un altro sistema di sorveglianza sempre per il regime di Bashar Al Assad.
Lo scandalo francese avrebbe quindi solo scoperchiato il fatidico vaso di Pandora: secondo il sito ufficiale di Wikileaks, mentre i cittadini occupavano le piazze facevano crollare i regimi nordafricani, «apparecchi prodotti da Gamma Corporation in Inghilterra, Amesys in Francia, VasTech in Sud Africa e Zte Corp in Cina controllavano ogni movimento on line e sui loro telefoni». I documenti finora pubblicati, comunque, sono principalmente manuali tecnici, cataloghi e depliant commerciali, e dimostrano solo la reale portata dei servizi offerti dalle industrie in questione, senza provare i traffici con paesi non democratici. Assange ha però giá rivendicato che questi “cables” sono solo i primi di una lunga serie.
Tutti sotto controllo? Anche se le accuse lanciate durante la conferenza stampa devono ancora trovare in molti casi conferma, a fare impressione é il numero e la varietà di servizi offerti dalle «imprese del controllo»: tracciamento di telefoni cellulari, capacità di sorvegliare enormi ammontare di dati su internet, fino alla possibilità di prendere controllo di computer ed apparati mobile. Quest’ultimo servizio sarebbe offerto, sempre secondo il Bij, anche da una compagnia italiana, Hacking Team, che sul proprio sito specifica però come i suoi servizi siano «volti a combattere il crimine in tutti e cinque i continenti».
Per Assange, «non e’ un problema individuale: stiamo parlando di sistemi di intercettazione di massa. Chi di voi ha un iPhone? Un Blackberry? Chi ha un account su Gmail? Beh, siamo tutti fregati». L’aspetto più inquietante è forse proprio la mancanza di «alcun tipo di regolamentazione in Francia, in Europa o in tutto il mondo che prevenga queste compagnie dal vendere i propri strumenti a dei dittatori», come ha dichiarato da Manachi. Una mancanza che, come sostenuto da Stefania Maurizzi de L’Espresso, pone queste industrie praticamente al di fuori del controllo pubblico.