Corporativismo? Ce n’è più oggi che negli anni ’70

Corporativismo? Ce n’è più oggi che negli anni ’70

Come quel folle che, nella Gaia Scienza di Nietzsche, andava al mercato con una lanterna ad annunciare la morte di Dio, da qualche tempo si sente spesso affermare che il sindacato è morto e che l’uscita dalle forme produttive del XX secolo, con «gli effetti combinati della globalizzazione, dell’integrazione europea, del cambiamento tecnologico e di un’offensiva generalizzato dei datori di lavoro» ha imposto la fine del corporativismo – cioè di quel particolare sistema istituzionale che demandava grandi scelte politiche alla contrattazione di organizzazioni in grado di rappresentare e articolare gli interessi di intere categorie sociali.

Nel suo articolo Similar Structures, Different Outcomes: Corporatism’s Surprising Resilience and Transformation, Lucio Baccaro, docente di Macro-Sociologia all’Università di Ginevra con due dottorati (uno a Pavia, uno al prestigioso Mit, il Massachusetts Institute of Technology) e 4 anni da Head of Research presso l’Ilo (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa degli standard minimi internazionali delle condizioni di lavoro e dei diritti fondamentali del lavoratore), studia l’evoluzione dei sistemi corporativi in 16 nazioni economicamente avanzate (Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Olanda, Norvegia, Spagna, Svezia, Regno Unito, e Usa), mostrando come il cambiamento istituzionale sia una realtà molto più vischiosa e complessa di quanto proclamato dagli ideologi del capitalismo post-moderno.

Analizzando un periodo di oltre trent’anni (dal 1974 al 2005), Baccaro si concentra su un ampio set di dati basato sulla codificazione sistematica degli accordi siglati nei Paesi sotto osservazione (riportati mensilmente sulla European Industrial Relations Review) e costruisce un “indice di corporativismo”, composto da due elementi tra loro complementari: una misura della contrattazione salariale tra imprenditori e sindacati e una misura della partecipazione delle parti sociali ai processi di policy-making in tre aree principali (politiche macroeconomiche, politiche sociali e politiche riguardanti il mercato del lavoro).

I dati mostrano come ci sia effettivamente stato un declino del corporativismo tra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni ‘80, ma questo declino è stato seguito da una rinascita negli anni ’90, nonostante il trend di forte calo nella densità sindacale (cioè della quota dei lavoratori iscritti a sindacati sul numero totale degli occupati) riscontrato a livello generalizzato. Tale “rinascita” è stata caratterizzata da un sostanziale cambiamento nella natura del corporativismo: i processi di contrattazione e coordinamento salariale tra imprenditori e associazioni dei lavoratori sono divenuti relativamente sempre meno importanti e sostituiti dalla contestuale ascesa della partecipazione dei sindacati ai processi di policy-making. Questo trend è disomogeneo tra i 16 Paesi: l’indice per il periodo che va dal 1974 al 1989, posiziona Belgio, Svezia, Austria e altri Paesi scandinavi in testa; Stati Uniti, Canada, Francia, Regno Unito e Italia in fondo alla classifica, e la Germania in una posizione mediana. Tuttavia, il ranking per il periodo 1990-2005 è piuttosto differente. Due Paesi, Italia e Irlanda, aumentano considerevolmente il proprio risultato, Australia e Svezia cadono sul fondo». Come si vede nella tabella che segue:

A questo punto, Baccaro si chiede in che misura tali mutate caratteristiche conducano a esiti sostanzialmente differenti rispetto a quelli che hanno caratterizzato il sistema corporativo in passato: «Uno dei più robusti risultati nella letteratura quantitativa è quello secondo cui le caratteristiche istituzionali del sistema di relazioni industriali, in particolare la densità sindacale e la struttura di contrattazione collettiva centralizzata o coordinata, conducono a una maggiore eguaglianza economica». La domanda dunque è: «Il nuovo corporativismo degli anni ’90 ha effetti livellanti simili a quello precedente?».

Al termine di un’analisi econometrica, Baccaro conclude che «il nuovo corporativismo appare meno redistributivo rispetto a quello della golden age degli anni ’70. Inoltre, mentre il corporativismo dell’epoca precedente non aveva alcuna relazione rispetto alla quota dei salari sul reddito nazionale, nel nuovo corporativismo i salari tendono ad aumentare a un ritmo minore rispetto alla produttività del lavoro». Il che significa che il corporativismo nato dagli anni ’90 è caratterizzato da una redistribuzione del reddito dal lavoro verso il capitale, ossia da un aumento della competitività ottenuto tramite compressione dei salari.

In sintesi, quando si considera il periodo che parte dal 1990 e raggiunge il 2005, «L’effetto del corporativismo nella riduzione della diseguaglianza è circa tre volte più piccolo di quello del precedente periodo, 1974-1989». La dimensione del welfare state rimane invece «Significativamente negativamente associato con la diseguaglianza e questa variabile sembra poter spiegare gran parte delle differenze tra i Paesi»: le nazioni che hanno mantenuto il più possibile inalterati i loro sistemi di welfare, spesso nati dalla collaborazione tra forze sindacali e governi di colore socialdemocratico, sono anche quelle in cui è stato minore l’aumento nella diseguaglianza sociale.

Dunque l’analisi supporta le seguenti conclusioni: 1) che il policy-making corporativo non è morto, contrariamente a quanto previsto, ma che esso ha piuttosto vissuto una sorprendente rinascita negli anni ’90; 2) che il nuovo corporativismo è meno concentrato sulla redistribuzione e più concentrato sulla competitività economica rispetto al corporativismo precedente. In qualche modo esso non costituisce più un’alternativa negoziata al modello di capitalismo liberale dominante, semmai favorisce l’approvazione di riforme di impronta neoliberale anche in Paesi istituzionalmente ‘densi’ come i Paesi dell’Europa continentale.

Abbiamo chiesto allo stesso Baccaro alcune delucidazioni su questi risultati e sulle loro implicazioni, in questa intervista:

Professor Baccaro, la sua analisi mette in luce la sorprendente resilienza del corporativismo, in grado di modificarsi ma di mantenersi elemento vivo e rilevante nella determinazione delle politiche pubbliche in molti dei paesi analizzati. Quali sono le ragioni del suo successo, e quali i principali motivi della discontinuità rilevata?
Il corporativismo ha vissuto una sua età d’oro negli anni ’70 del secolo scorso: in quel periodo gli attori politici percepivano la collaborazione tra grandi movimenti sindacali come l’elemento fondamentale in un contesto di pacificazione sociale secondo politiche di ispirazione keynesiana, volte alla piena occupazione della forza lavoro. Evitando di usare completamente il proprio potere di mercato nella sfera della determinazione dei salari, i sindacati dei lavoratori entravano in uno “scambio politico” con i governi, scambio che permetteva di ottenere una serie di riforme strutturali (come, ad esempio, l’espansione della spesa pubblica, la demercificazione dei servizi pubblici, eccetera) e maggiori livelli di eguaglianza economica rispetto ad altre economie capitaliste a comparabili livelli di sviluppo.

Per quale motivo questo sistema è andato a cadere?
Con la fine degli accordi di Bretton Woods, il mutamento di una serie di condizioni e politiche macroeconomiche a livello internazionale (tra cui la politica reaganiana di alti tassi d’interesse e la deregolamentazione sul controllo dei capitali) ha fortemente ridotto lo spazio di negoziazione a disposizione delle associazioni sindacali che, da una parte, si mostravano sempre meno in grado di far rispettare gli accordi sottoscritti e, dall’altra, erano bypassate nei meccanismi di moderazione dell’inflazione, ottenuta non più tramite compressione dei salari ma attraverso politiche monetarie restrittive, pur se al costo di maggiori tassi di disoccupazione. Di fronte a tali circostanze, i datori di lavoro hanno iniziato a percepire il coinvolgimento dei sindacati dei lavoratori nella contrattazione collettiva nazionale e nelle politiche pubbliche non più come un inevitabile costo da pagare per la pace sociale e la stabilità economica, piuttosto come una costosa e inefficiente rigidità di cui ci si sarebbe potuti tranquillamente sbarazzare.

Ma a che prezzo?
La transizione verso un regime di tipo neo-liberale richiedeva l’imposizione al corpo sociale di riforme che includevano non solamente moderazione salariale, come in passato, ma anche rettitudine fiscale (implicante una razionalizzazione del settore pubblico), liberalizzazione del mercato del lavoro, ristrutturazione dei sistemi di welfare, attuando un sostanziale trasferimento dei rischi da Stato e capitale verso lavoratori e cittadini. Il prezzo e le perdite da imporre a una larga maggioranza della popolazione erano enormi: non era scontato che tali riforme sarebbero potute essere approvate senza incontrare fortissime resistenze e generare tensioni sociali anche potenzialmente eversive.

E com’è stato possibile, allora, attuare tale transizione?
C’è stato un solo esempio chiaro di governo capace di far approvare unilateralmente le misure restrittive, per altro solo in alcuni campi (non in materia pensionistica, ad esempio), ed è quello di Margaret Thatcher. Gli altri governi, soprattutto quelli dei Paesi istituzionalmente più densi dell’Europa continentale, hanno fatto ricorso a patti neocorporativi. Non dico che non ci sia nessuna differenza tra una riforma contrattata ed una imposta unilateralmente. Le differenze, ovviamente, ci sono e riguardano soprattutto i tempi della transizione e la platea dei soggetti chiamati a pagare il costo maggiore. Dico semplicemente che i patti neocorporativi, a differenza degli anni ’70, non offrono più un’alternativa sistemica al capitalismo liberale. Che tali patti siano incapaci di mutare il colore delle politiche governative è ampiamente dimostrato dagli esempi forniti dalle varie crisi in corso in paesi come l’Irlanda o la Spagna. Si è fatto ricorso, in alcuni casi, al patto sociale per rispondere alla crisi dei debiti sovrani, ma il risultato non è stato molto diverso da altri interventi presi unilateralmente dai governi sotto la spinta dell’emergenza.

Che cosa cambia, allora, con i patti neocorporativi?
Quel che è più interessante del nuovo corporatismo non riguarda gli esiti, ma i processi. Allo scopo di legittimare l’accettazione di riforme impopolari, in Paesi come Irlanda e Italia i sindacati dei lavoratori si sono affidati alla democrazia e al dibattito per coinvolgere i loro membri. In particolare, prima di firmare i vari patti, essi hanno organizzato assemblee sui luoghi di lavoro e referendum dei lavoratori, impegnandosi ad attenersi al risultato del voto della maggioranza, in questo modo marginalizzando le fazioni più radicali. Allo stesso tempo, è probabile che le procedure democratiche non solo abbiano aggregato preferenze predeterminate, ma anzi abbiano contribuito a plasmare le stesse. Il voto veniva preceduto da assemblee nelle quali i leader usavano vari argomenti, per lo più pragmatici, ma anche etico-morali, per spiegare perché occorreva prendere tali decisioni. Questo processo di democrazia discorsiva favorì l’emergere di consenso verso riforme sgradevoli.

Per quale motivo i sindacati si sono trovati ad accettare e gestire riforme che, fino a poco tempo prima, nessuno avrebbe pensato ipotizzabili?
La risposta è quella offerta da Margaret Thatcher: «There Is No Alternative» (TINA). I sindacati si trovarono di fronte alla spiacevole scelta di acconsentire a queste contrattazioni macro-concessive o rifiutarsi totalmente di partecipare. Prendiamo il caso dell’Italia: se non firmano la riforma delle pensioni del 1995 o del 2007, ci sono buone possibilità che torni Berlusconi (o chi per lui) e ne faccia una ancora più penalizzante. Allo stesso tempo, lo scambio politico come do ut des tra moderazione salariale e maggiore protezione sociale sostanzialmente spariva e il disavanzo dei budget pubblici non permetteva più ai governi di pagare contropartite rilevanti. Dove lo scambio continuò a essere praticato (come in Irlanda e Finlandia), esso barattava moderazione dei salari per riduzioni fiscali, cioè misure volte a favorire il consumo privato invece di quello pubblico.

E com’è possibile che non vi sia stata una forte opposizione del tessuto sociale, ma anzi una sostanziale accettazione delle stesse?
Come prezzo per la loro collaborazione, i sindacati hanno domandato, e spesso ottenuto, di essere protetti come istituzioni. Questo ha implicato che i membri principali dei sindacati, lavoratori di sesso maschile in età avanzata, sono stati meno toccati dai tagli e dalle liberalizzazioni, ma al prezzo di riversare i costi su altre categorie; come giovani lavoratori e lavoratori a tempo determinato. Una serie di fattori, variabili in base ai Paesi e ai singoli sistemi di welfare (tra cui la presenza di legami di solidarietà endofamiliare) hanno probabilmente contributo a fare in modo che le categorie penalizzate non abbiano percepito la situazione come catastrofica e non si siano organizzati per cambiarla, anche solo come semplice meccanismo di difesa. Tuttavia, le teorie principali sulla mobilitazione collettiva sostengono che quel che spiega meglio la mobilitazione non è la presenza di grievances, ossia di situazioni di disagio e di torto subito percepito, ma di forme organizzative preesistenti, anche se legate ad altre tematiche, e di risorse associate.

A cosa può condurre, anche in prospettiva, questa dialettica tra insider e outsider?
È una situazione molto pericolosa per il sindacato, che sembra incapace di arrestare, per non dire invertire, la sua crisi organizzativa. Se perde, oltre ai membri, la legittimità, se (come negli Stati Uniti) è percepito come special interest invece che portatore d’interessi e progetti almeno potenzialmente generali, il sindacato è finito. Ma è anche una situazione molto difficile da gestire. Il riequilibrio tra insider e outsider richiede una ridistribuzione interna. Questa è molto più facile da attuare quando il Paese cresce del 3% all’anno. Si tratta di far crescere di meno i gruppi più favoriti, e di più gli altri, ma quando – come in Italia dal 1992 a questa parte – il Paese è fermo, il riequilibrio richiede perdite secche per qualcuno, e questo è molto difficile per qualsiasi organizzazione, non solo il sindacato.

Lei tuttavia rileva come il movimento sindacale continui a rimanere una forza fondamentale per la “organizzazione” dell’uguaglianza in una società. È allora possibile che i sindacati escano dalla crisi in cui si trovano? E come?
Non so se i sindacati usciranno dalla crisi di rappresentanza, che è profonda e che tocca tutti i movimenti sindacali nazionali che conosco, compresi quelli dei Paesi in via di sviluppo. Sicuramente non è un problema soggettivo, di strategia: se fosse un problema di strategia, per ragioni puramente statistiche, qualcuno troverebbe la giusta via. La mia previsione (fallibile, come tutte le previsioni) è che tra cento anni si parlerà dei sindacati nella stessa maniera in cui parliamo ora delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi agricoli: una volta erano estremamente importanti, oggi esistono ancora ma sono marginali. Sicuramente la scomparsa dei sindacati sarà un fenomeno graduale e per molti anni ancora gli attori politici si troveranno a fare i conti con loro.

Che dialettica c’è stata, nel movimento sindacale, tra i gruppi favorevoli a tentare di “governare” le riforme neo-liberali e invece le frange minoritarie e riottose? Vi è stato un vero dibattito di prospettiva e strategia? E quanto hanno influito, in questo processo, le posizioni dei partiti storicamente più vicini ai sindacati?
La mia impressione è che a livello politico non ci sia stato nessun dibattito vero: la sinistra italiana, storicamente una fucina di innovazioni culturali cui hanno attinto i politologi internazionali per decenni, non ha proposto nessuna analisi innovativa, ha semplicemente interiorizzato le ricette neoliberali dominanti – per esempio che la disoccupazione è dovuta a rigidità del mercato del lavoro, che la crescita richiede “riforme strutturali” (ma cosa saranno mai?), ecc. – cercando di renderle socialmente più gestibili e digeribili. In generale, si è proposta di governare i processi di ristrutturazione internazionale. Al massimo ha abbracciato l’ideologia della terza via elaborata altrove, tutta centrata sul miglioramento delle opportunità individuali d’impiegabilità e di sviluppo del capitale umano. Occorre dire tuttavia che in Italia lo spazio di azione politica autonoma è reso ancor più limitato che altrove dall’enorme peso del debito pubblico. A livello sindacale ci sono invece delle frange di resistenza, sempre più limitate in termini numerici, e da decenni ridotte alla sola Cgil, ma non mi sembra che queste frange abbiano saputo produrre molto più che la difesa della cittadella assediata delle situazioni preesistenti.

Come da lei sottolineato, buona parte del dibattito oggi riguardante i sindacati, ma più in generale le riforme sociali ed economiche, si rimettono alla contemplazione dell’oggettività dei processi economici globali, i quali imporrebbero ben precise scelte. Quanto questo discorso è, appunto, “oggettivo” e quanto invece frutto di una determinata volontà politica? Insomma, esiste uno spazio per politiche di segno opposto rispetto a quelle teorizzate dal Washington Consensus o esse sono dettate dalla cogenza delle trasformazioni strutturali dell’economia internazionale?
Io sono dell’opinione che i vincoli dell’economia internazionale siano abbastanza cogenti e che gli attori nazionali, nonostante le differenze d’impostazione ideologica, facciano sostanzialmente le stesse cose. Le differenze ci sono, ovviamente, ma sono più di dettaglio che di sostanza. Questa opinione non è condivisa da molti, direi la maggior parte, dei miei colleghi che si occupano di questi fenomeni, per i quali non c’è nessun processo di convergenza tra modelli nazionali. Io penso che perché politiche di segno opposte rispetto a quelle mainstream siano fattibili è necessario che cambi profondamente il quadro macroeconomico internazionale. Gli effetti della crisi finanziaria internazionale, e soprattutto i tentativi di ri-regolazione della finanza internazionale, avrebbero potuto determinare questo tipo di situazione. Ma mi sembra che la finestra di opportunità si sia ormai chiusa. Detto questo, occorre distinguere tra ragione e volontà, tra quel che è fattibile, e quel che è auspicabile. Un operatore politico fa quel che ritiene possibile dati i vincoli che si ritrova davanti. Un idealista articola un nuovo sistema di valori, indipendentemente dalla loro praticabilità. Se tutti gli attori politici internalizzano i suddetti vincoli, se nessuno si mobilita per metterli in questione, allora nessun cambiamento è possibile. È per questo che i movimenti di mobilitazione collettiva, anche ‘ingenui’, sono per me estremamente importanti. Solo se un numero sufficiente di individui crede che c’è un’alternativa, per quanto irrealista essa possa sembrare, l’alternativa esiste.

E oggi esiste una alternativa alla crisi che sta sconvolgendo il sistema politico europeo e l’economia internazionale?
È una domanda alla quale non posso che rispondere per grandi linee. Una cosa di cui sono convinto è che bisogna combattere le “false necessità”: l’idea che l’unica maniera per uscire dalla crisi sia quella di abbracciare responsabilmente le politiche di austerità. Non sono affatto convinto che l’austerità sia la soluzione. Penso anzi che sia controproducente, anche in termini puramente economici. Nell’immediato, qualunque ipotesi di soluzione alla crisi del debito sovrano passa per un mutamento di atteggiamento della Banca centrale europea, che dovrebbe accettare il ruolo (che per il momento rifiuta) di prestatore di ultima istanza. Nel lungo periodo occorrono riforme strutturali. Non necessariamente quelle che si tirano in ballo di solito, e che riguardano il mercato del lavoro, ma riforme strutturali della finanza internazionale, che ne riducano fortemente il ruolo economico e la capacità di influire sui processi politici a tutti i livelli. Perché tutto questo sia possibile, è necessario che i cittadini europei si facciano sentire, come per altro hanno cominciato a fare.  

Una domanda, infine, che riguarda anche il modo in cui il nuovo governo italiano si troverà a prendere decisioni su questioni sociali rilevanti nel futuro prossimo. C’è ancora spazio per la concertazione sociale? Insomma, qual è il ruolo dei sindacati dopo la crisi finanziaria?
La crisi finanziaria e le sue conseguenze hanno mostrato la dispensabilità non solo del corporatismo dell’ultima fase, ma anche della democrazia (in alcuni paesi). Il contenuto delle politiche si decide altrove: se i sindacati sono d’accordo meglio firmare un patto che non farlo; se non sono d’accordo, si procede ugualmente.

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