Pizza ConnectionCutrò, imprenditore antimafia che non ha lo Stato tra gli amici

Cutrò, imprenditore antimafia che non ha lo Stato tra gli amici

Ignazio Cutrò è un testimone di giustizia. I testimoni di giustizia sono quelle persone che non sono parte di una organizzazione criminale, ma che, anzi, le denunciano e ne descrivono meccanismi e personaggi. In Italia sono principalmente imprenditori che non si sono piegati al racket, al pizzo e all’usura. Una figura che nel nostro Paese non se la passa benissimo. Lo status di “testimone di giustizia” era una figura sconosciuta nell’ordinamento italiano, il riconoscimento formale di questa figura arriva addirittura dopo quella dei collaboratori di giustizia, i cosiddetti “pentiti”. Mentre la disciplina relativa ai collaboratori di giustizia risale al gennaio 1991, il testimone di giustizia, per essere definito tale e integrare nella legge stessa qualche tipo di tutela dovrà attendere altri dieci anni con la Legge 45 del 2001

Oggi i testimoni di giustizia in Italia sono circa una settantina e le loro storie rimangono spesso confinate nelle pagine della cronaca locale e isolate. Sono soprattutto storie di donne che decidono di uscire dalla logica della famiglia mafiosa da cui provengono, di uomini che denunciano il malaffare che hanno sotto gli occhi e di imprenditori e imprenditrici che si sono visti piombare sui cantieri o nei negozi gli esattori delle cosche.
Si esortano spesso gli imprenditori a denunciare ma la strada è sempre tortuosa e chi denuncia viene estromesso dal mercato, impossibilitato al lavoro e mandato a vivere in località segreta con famiglia al seguito. La vita più dura tocca a chi denuncia e non ai denunciati, che spesso continuano a fare affari e vincere appalti anche nei settori pubblici.

Insomma, i testimoni di giustizia sono definiti dal codice “Coloro che, senza aver fatto parte di organizzazioni criminali- anzi essendone a volte vittime, hanno sentito il dovere di testimoniare per ragioni di sensibilità istituzionale e rispetto delle esigenze della collettività, esponendo se stessi e le loro famiglie alle “reazioni degli accusati e alle intimidazioni della delinquenza”.

Ignazio Cutrò è uno di questi. Un imprenditore edile di Bivona (Agrigento) che nel 1999 inizia a denunciare le intimidazioni presso i cantieri. Da lì parte un’escalation che costringerà Cutrò a chiudere baracca: «i privati non mi hanno più chiamato per svolgere lavori. Da un giorno all’altro ho smesso di gudagnare. Tutto perché avevo deciso di denunciare». La sua testimonianza è stata decisiva nel processo alle cosche della Bassa Quisquina, conclusosi con cinque condanne tra i 10 e i 15 anni proprio a gennaio di quest’anno dopo aver preso le prime mosse con l’operazione Face-off del 2008.

Da quel momento però Cutrò perde azienda e commesse. Nel dicembre 2010 con un’altra imprenditrice palermitana, anch’ella testimone di giustizia, Valeria Grasso, si incatena per una protesta davanti agli uffici del Viminale, sede del Ministero dell’Interno. «Lo stato italiano – spiegò Cutrò ai cronisti durante la giornata – mi ha prima usato per istruire un processo al gotta mafioso di Agrigento, poi mi ha abbandonato al mio destino».

La situazione dell’imprenditore Cutrò dopo le denunce è di estrema difficoltà. In primis per le intimidazioni, e in seconda battuta per l’impossibilità di lavorare e di ripianare la situazione debitoria dell’azienda: il fondo di Garanzia di Confindustria negò il benestare presso il banco di Sicilia e la Serit, l’agenzia di riscossione crediti per la Sicilia, già nel dicembre 2010 faceva notare di non tenere conto della sospensione prefettizia triennale della situazione debitoria.

L’imprenditore di Bivona non chiedeva maggior protezione per sé come aveva frainteso in occasione della protesta l’ex sottosegretario Alfredo Mantovano, ma la possibilità di tornare a lavorare. Lo stesso Mantovano in merito aveva fatto sapere che il fondo antiracket del ministero aveva erogato a titolo di risarcimento 129.911 euro in favore di Cutrò, che a sua volta aveva fatto però sapere di poter utilizzare quei soldi solo per l’acquisto di attrezzature e macchinari per l’azienda, che però non aveva commesse né dai privati, né dal pubblico ed era in attesa del rilascio dei documenti necessari per il riavvio dell’azienda. Ma il rilascio di quei documenti non è ancora avvenuto

Un anno dopo la Serit (l’agenzia della riscossione crediti in Sicilia) torna a battere cassa e il 23 dicembre scorso recapita all’imprenditore il regalo di Natale: una cartella esattoriale da 85.562,56 euro, da saldare entro trenta giorni, pena l’iscrizione di ipoteca sui beni immobili.

«E’ ingiusto – commento Filippo Ribisi, presidente di Confartigianato imprese Sicilia – che lo Stato italiano chieda agli imprenditori di mettersi in prima linea denunciando il pizzo imposto dai mafiosi, e poi li costringa a confrontarsi con meccanismi burocratici lunghi e farraginosi che finiscono per boicottarli, prestando il fianco alla criminalità che punta anche su questo per scoraggiare le imprese a denunciare». Una vicenda che ancora una volta rischia di passare sotto traccia tra le cronache locali, ma che dovrebbe invece finire dritta sul tavolo del ministro Cancellieri, che proprio pochi giorni fa a Milano, esortava gli imprenditori a «reagire, reagire, reagire». 

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