Tra lo scorso 28 novembre e l’11 dicembre la comunità internazionale si è riunita a Durban, in Sud Africa, per negoziare un nuovo accordo climatico, poiché l’attuale Kyoto sarà valido fino alla fine del 2012. L’esito di due settimane di chiacchiere? A quanto pare, chiacchiere – oltre a una vigorosa dimostrazione di forza da parte della Cina e dell’India, che hanno ottenuto tutto ciò che volevano. Il risultato principale è stato di stabilire che, entro il 2015, tutti i paesi del mondo troveranno un accordo generale per la riduzione delle emissioni, in vigore a partire dal 2020. Nel frattempo, il prossimo anno Kyoto dovrebbe essere prolungato per coprire gli otto anni di attesa. Si tratta di una formula comunicativa perfetta per parlare di nulla facendo credere che abbia un valore.
Il primo problema riguarda Kyoto, che era un trattato estremamente fallace. Impegnava a riduzioni nelle emissioni, di fatto, appena il 20% del mondo. Paesi ad alta intensità di emissioni (in paragone al Pil) come la Cina avevano formalmente firmato il protocollo, ma appartenevano a una lista speciale di “paesi in via di sviluppo” (“non-Annex”), che non imponeva riduzione di emissioni. Erano stati introdotti alcuni correttivi: per esempio, se la Germania effettuava “progetti di sviluppo pulito” (“Clean Development Mechanism”, o “Cdm”) in Cina, riceveva un credito per le proprie emissioni. Ciò non è chiaramente parso sufficiente agli Stati Uniti, che si sono ben guardati dal firmare, sostenendo che Kyoto assegnasse un vantaggio competitivo fin troppo evidente a Pechino.
Prolungare Kyoto di otto anni non risolverà questo problema di disequilibrio: la Cina, pur ospitando il maggior mercato mondiale di impianti eolici, produce ancora l’85% della propria energia dal carbone, la risorsa a maggiore intensità di emissioni del mondo. Forse possiamo riporre le nostre speranze nell’accordo del 2015? Chi scrive è pessimista: procrastinare la data per un accordo serve solo a guadagnar tempo, e riconosce il potere della Cina, che non vuole impegnarsi in nessun accordo che limiti le emissioni.
Dal 2007 la Cina è il maggior Paese al mondo per emissioni. Lentamente sta realizzando che le priorità climatiche fanno parte anche del suo interesse domestico e sta agendo in proposito. Al summit climatico di Copenaghen ha promesso di aumentare la quota di produzione energetica non fossile del 15% al 2020 e aumentare la forestazione di 40 milioni di ettari. Sono tutte iniziative che vanno a beneficio della sostenibilità economica e della percezione locale – a parte essere in linea con le normali tendenze del sistema, ma su questo non ci dilungheremo.
Dalle emissioni dipende lo sviluppo. Recentemente Pechino ha dichiarato di voler ridurre l’intensità energetica del proprio Pil aggiuntivo del 45% al 2020. Da qui, alcuni giornalisti e uffici stampa hanno dichiarato che «la Cina vuole ridurre le proprie emissioni del 45%», ma è un’interpretazione errata: si riduce l’intensità energetica del Pil aggiuntivo, mentre l’altissimo stock base di emissioni in paragone al Pil esistente rimane invariato. Di fatto, le emissioni aumenteranno.
C’è però una speranza: il non-accordo di Durban è figlio della crisi economica. Come si diceva, in un periodo di stagnazione i sacrifici per il clima non sono al centro dell’interesse dei cittadini. Forse, nel 2015 questo caos sarà ripianato, o dall’anarchia economica sarà emerso il paese in grado di guidare un accordo climatico vero. Quattro anni sono pochi, ma possiamo già prevedere che il mondo sarà organizzato ancora più pervasivamente sull’asse sino-americano. I due paesi anno provato a negoziare un accordo cardine già a Copenaghen nel 2009 e lo scorso anno a Cancún, con esiti limitati, ma riuscendo comunque a portare con loro tutta la comunità internazionale. Quest’anno a Durban è prevalsa la logica dell’”accordo globale e multilaterale”, come usava all’Onu una cinquantina di anni fa, ed è per questo che i risultati sono stati deludenti.
Forse si pecca di eccessivo realismo, ma gli accordi internazionali di maggior solidità sono quelli guidati da una o due potenze politiche dominanti. La paralisi di Durban nasce dall’impossibilità di trovare un accordo vero tra Washington e Pechino. Se sembra una visione estrema, per convincerci dobbiamo fare un paragone. I negoziati per il disarmo atomico negli anni Ottanta hanno in parte funzionato perché le due potenze dominanti, Urss e Usa, hanno raggiunto un accordo. Adesso, i negoziati riguardano il “disarmo climatico”, che segue logiche strategiche simili, inclusa la “mutual assured destruction” nel peggiore dei casi. Tra tre anni i rapporti di forza e la minaccia climatica di Cina e Stati Uniti saranno ancora più chiari di oggi, e ci saranno speranze.