Un «lusso offensivo». Così il fisiologo di origine svedese A.J. Carlson definiva l’obesità nel 1942, proponendo un balzello per ogni chilo di troppo. Una proposta allora giustificata dalla necessità di fare provviste: gli Usa erano appena entrati in guerra dopo l’attacco giapponese alla base navale di Pearl Harbour. La tassa di scopo sul cibo spazzatura e sull’alcol, presentata ieri dal ministro Balduzzi alla Conferenza delle Regioni, per finanziare l’edilizia sanitaria (art. 20 della legge 67/88), ha dunque origini lontane ed è un tema dibattuto da anni soprattutto nel mondo anglosassone. Il discorso è molto scivoloso: da un lato il problema è il diritto dello Stato di intervenire sulla libertà dei cittadini di rovinarsi deliberatamente la salute, dall’altro sulla ricaduta di questi comportamenti sulla collettività, in termini di maggiori costi che la collettività deve sostenere per curare chi si ammala, ammesso e non concesso che tutti siano bene e ugualmente informati su quali rischi per la salute comporti bere, fumare, avere uno stile di vita sedentario e un’alimentazione scorretta. Ma anche ammesso che chi beve o fuma paga già delle tasse sui propri vizi.
Quando A.J. Carlson formulò la sua teoria, aveva appena lasciato la carica di presidente del Dipartimento di Fisiologia dell’Università di Chicago, che resse dal 1916 al 1940. Trent’anni dopo, proprio a Chicago, negli anni ’70, nasceva una scuola di pensiero economico oggi molto citata e che avrebbe mal sopportato una simile ingerenza del pubblico nella vita delle persone. Tra il periodo di massima espansione del neoliberismo dei Chicago Boys e l’inizio degli anni ’80 il professor Kelly D. Brownell, direttore del Rudd Center for Food Policy and Obesity dell’Università di Yale e nominato nel 2006 da Time nel novero delle 100 persone più influenti al mondo, riprende le idee di Carlson, proponendo una tassa di scopo sul junk food per finanziare cibi sani e campagne di sensibilizzazione per la corretta alimentazione, notando lo sbilanciamento tra gli economici fast food e i costosi prodotti biologici e salutisti in un editoriale pubblicato nel 1994 dal New York Times. Un conto è tassare il cheeseburger, e un altro chi lo consuma, a prescindere dalla sua dichiarazione dei redditi.
Le posizioni del prof. Brownell varcarono così il mondo accademico, ma né l’amministrazione Clinton né Barack Obama, che tornò sul tema nel 2009, riuscirono a vincere le resistenze dell’industria alimentare e dei repubblicani all’approvazione di un’imposta federale sugli alimenti ricchi di grassi saturi, cioè quelli pericolosi per la salute (che contribuiscono cioè alla formazione del colesterolo, che ostruisce le arterie e genera malattie cardiovascolari), sulle bibite ricche di zuccheri e sulle bevande moderatamente alcoliche. Secondo una stima della rivista Healthcare Affairs ripresa dal New York Times, riferita al 2009 e quindi precedente alla riforma sanitaria varata da Obama, il costo dell’obesità in termini di premi assicurativi per ogni cittadino americano era di 1.250 dollari l’anno. Recentemente, la discussione sulla “fat tax” in Usa si è focalizzata sui costi crescenti della produzione di carne e sull’incremento dei prezzi del grano in seguito alla bolla dei biocarburanti, ma sostanzialmente il problema del costo sociale dell’obesità, che in Usa investe il 30% della popolazione – stando ai dati 2010 del National center for health statistics americano – è irrisolto.
In Europa è la Danimarca a fare da apripista, assieme all’Inghilterra. Fatto curioso: in entrambi i casi sono stati governi conservatori a proporre le misure. Ha iniziato un paio di mesi fa l’allora primo ministro danese Lars Løkke Rasmussen, varando un provvedimento che introduce una tassa pari a 13,5 corone danesi (1,7 euro) per ogni kilo di grasso saturo negli alimenti che ne contengono più del 2,3 per cento. Il balzello si applica quindi soltanto a burro, formaggi, patatine e vari olii vegetali, ma anche a salumi e carne di pollo.
Un esempio che David Cameron ha deciso di seguire per fare fronte ai costi crescenti della sanità britannica, di recente finita sotto accusa in seguito al fallimento di una nota catena di case di riposo, e all’incremento delle malattie cardiovascolari. «Valuteremo l’impatto sulle famiglie» aveva detto lo stesso Cameron a margine del congresso dei Tories a inizio ottobre, ma la legge non è ancora pronta. Proprio l’altro ieri, invece, l’odiata Parigi ha approvato un’imposta da 3 a 6 centesimi di euro per litro sulle bevande zuccherine come la Coca Cola, una misura che dovrebbe portare nelle casse dello Stato circa 100 milioni di euro l’anno. Stando ai numeri dell’Institut National de la Santé et de la Recherche Médicale, gli obesi cronici in Francia sono 7 milioni (su una popolazione totale di 65 milioni).
In Italia, secondo i dati storici rilevati dall’Istat, nel 2009 gli uomini obesi di età compresa tra i 35 e i 45 anni sono il 14% della popolazione, il 9,8% le donne della stessa fascia di età, percentuale che si alza rispettivamente a 16,6 e 14% tra i 55-65 enni. Nelle stesse classi i fumatori sono compresi tra il 20 e il 30% della popolazione e i bevitori a rischio sfiorano il 20% tra gli uomini, mentre la percentuale cala al 4% per le donne. La spesa sanitaria delle Regioni è la prima voce che concorre alla formazione del deficit pubblico nazionale, perciò è normale che un esecutivo al di fuori di logiche di partito cerchi un modo per finanziarla. Purché non si trasformi in una caccia alle streghe nei confronti dei cittadini che giustamente pretendono la libertà di rovinarsi la salute quanto gli pare e piace visto che, appunto, per farlo pagano già le loro belle tasse.
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