In ogni società, i ricchi sono più felici dei poveri. Ma cosa succede ai livelli di felicità quando la crisi colpisce su scala mondiale e giunge a mettere in ginocchio l’economia di un intero continente? I dati del round 5 della European Social Survey, pubblicati lo scorso 26 ottobre – a quasi quattro anni dal fallimento della Lehman Brothers e poco più di un anno dallo scoppio della crisi dei debiti sovrani europei – ci danno la possibilità di valutare proprio i livelli di felicità riportati da un campione rappresentativo di 26 paesi europei (più la Russia e Israele).
Abbiamo messo in relazione le risposte alla domanda “Quanto sei felice?” (comprese tra 0, ossia “estremamente infelice”, a 10 – “estremamente felice”) con le categorie di reddito netto del nucleo famigliare (differenziate in decili a partire dal primo, che comprende il 10% più povero della popolazione) e abbiamo trovato risultati assai interessanti.
È convinzione comune e ragionevole quella secondo cui un’economia in recessione tende a spingere ancora più ai margini del mercato del lavoro (e quindi dei processi di inclusione sociale) chi è disoccupato, o impiegato in lavori a bassissimo reddito – spesso caratterizzati da scarse tutele -, colpendo più duramente gli individui più svantaggiati della popolazione.
Eppure, se si guarda semplicemente ai livelli di felicità, si nota un fatto semplice e sorprendente: con la crisi, i più poveri sono diventati più felici.
Infatti, osservando i primi tre decili di reddito (il 30% più povero della popolazione) notiamo un rilevante calo nella quota di coloro che si dichiarano infelici (risposte da 0 a 5), che passano dal dal 57,8% del 2006 al 39% del 2010 nel primo decile di reddito, dal 46,8% al 35,7% nel secondo decile, dal 38,5% al 30,4% nel terzo. Allo stesso tempo, i “poveri ma felici” aumentano sensibilmente: la quota di coloro che, compresi nel primo decile, hanno dato un punteggio di 8/10 alla propria felicità aumenta dall’11,4% del 2006 al 16,3% del 2008 e raggiunge il 18% nel 2010. Coloro che si dichiarano “estremamente felici” passano in quattro anni dal 5,3 all’8,6% nel primo decile, dal 6,9 al 9% nel secondo, dal 7,4 al 9,8% nel terzo decile. Il quarto decile, un ceto medio-basso a rischio povertà, aumenta di poco gli “estremamente felici” ma vede una sostanziale invarianza nella quota degli infelici.
Ogni medaglia, però, ha il suo rovescio e questo si chiama “ceto medio”. A partire dal quinto decile di reddito (inferiore alla media, ma fuori dalla povertà), le difficoltà del sistema economico si riflettono in aumenti dei livelli di infelicità attorno al 4% per i decili quinto, sesto e settimo, e da una complementare diminuzione di coloro che si dichiarano felici o “estremamente felici”. Giungendo all’ottavo decile (cioè tra i più ricchi della popolazione europea), gli infelici aumentano dal 10,2% del 2006 al 16,2% del 2010: solamente il top 10% della popolazione è colpito così pesantemente dagli effetti della crisi sulla felicità dichiarata, con un aumento delle persone infelici dal 6,9 al 13,1% (per una crescita totale del 6,2%), un crollo dei “felici a otto e nove decimi”, anche se con una sostanziale invarianza (circa 11%) degli “estremamente felici”. Il nono decile, che comprende i ricchissimi ma non i più ricchi, è quello che, sopra il quinto decile, tiene meglio la crisi: limita le perdite ad un 3% in più di infelici e mantiene invariati gli “estremamente infelici”: erano 8,5% nel 2006 e sono 8,5% oggi, nonostante un picco del quasi 10% nel 2008.
Anche i ricchi piangono, insomma? Sì, ma con cautela, cioè a patto di non perdere d’occhio quella che gli anglosassoni chiamano “the bigger picture”.
È difficile stabilire le cause del trend mostrato dai dati. È probabile che coloro che si trova nei decili di reddito più bassi siano più felici in fase di recessione poiché si allenta la pressione sociale su di loro: diminuendo per tutti e drasticamente le aspettative di trovare un lavoro, chi cerca un’occupazione o è inattivo di lungo periodo sembra trovarsi molto meglio di coloro che un lavoro ce l’hanno, e magari rischiano di non averlo più.
Il ceto medio, infatti, solitamente composto da individui adulti e già inseriti nel mercato di lavoro, e che parte da posizioni di ricchezza relativa, ha tanto da perdere: è su di esso che i policy-maker hanno fatto e faranno affidamento per garantire sostenibilità dei debiti e per dare liquidità al sistema economico, il che si riflette in un aumento delle tasse o in penalizzanti riforme dei sistemi previdenziali e delle pensioni. Questo, unito al trade-off tra stabilità del posto di lavoro e necessità di accettare sacrifici come tagli degli stipendi o un maggiore numero di ore lavorate, contribuisce ad aumentare l’incertezza nel futuro e può causare una diminuzione nei livelli di felicità dichiarata, come quella osservata.
I ceti più ricchi, invece, direttamente esposti agli andamenti del sistema finanziario, ne subiscono (o sfruttano) la volatilità in tempo di crisi, e rischiano di vedere il proprio patrimonio a repentaglio, ma solo in un numero relativo di casi in maniera realmente rilevante. Se si guarda ai livelli di infelicità, in questi strati sociali rimangono molto più bassi della media.
Inoltre, occorre notare come nei decili più poveri si riscontrino variazioni percentuali di una magnitudine doppia o tripla rispetto a quelle trovate negli strati più ricchi della popolazione. Questo significa che il tenore di vita di una larga parte della popolazione europea rimane sensibilmente correlato e determinato dagli andamenti economici di breve periodo, ossia che esistono e persistono situazioni di marginalizzazione sul mercato del lavoro e di semi-emarginazione dai circuiti di sicurezza sociale.
Nelle classi più povere, insomma, il malessere esiste, con o senza la crisi, e la grande variabilità della “felicità dichiarata” ne è proprio un indicatore. Si tratta anzi di un malessere di dimensioni rilevanti. Oltre un terzo di coloro che si collocano nei i primi tre decili si dichiara oggi infelice: cinque anni fa questa quota sfiorava il 50 per cento.
È possibile che una parte di questo malessere sia ineliminabile. Varie ricerche hanno mostrato che, quando si tratta di felicità, la distribuzione del reddito conta molto più dei livelli di reddito: la nostra felicità, dunque, non dipende tanto dal nostro benessere in assoluto, piuttosto dalla comparazione della nostra ricchezza con quella del gruppo sociale di riferimento.
Se nel quadro si inserisce la variabilità umana, che definisce gli approcci alla vita di ognuno di noi in quanto individui singoli e irriducibili ad un qualsiasi processo sociale (proprio perché esposti ad una pluralità degli stessi), si deduce che ci saranno sempre persone infelici, a prescindere da quanto una nazione sia ricca in termini oggettivi. Il che non sposta nemmeno di una virgola la questione dell’importanza di quella che Ernesto Rossi chiamava la lotta alla miseria, anche oggi, nel 2011, in Europa.
Nota: I dati su cui si è lavorato sono inediti e richiedono maggiori specificazioni e un più elevato grado di analisi per comprendere correlazioni più complesse rispetto a quelle messe in luce in questo articolo, nonché per valutare la significatività statistica delle stesse. In secondo luogo, quella cui si è guardato è una media aggregata di nazioni molto diverse tra loro (seppur pesata per evitare distorsioni statisticamente rilevanti), di un campione di individui che cambia nel tempo, e di un gruppo di paesi che vede un piccolo numero degli stessi uscire o entrare nell’indagine (dal 2008 al 2010 esce ad esempio la Grecia ed entra la Bulgaria, e in nessuno dei due round è presente l’Italia). Inoltre, i livelli di felicità variano da paese a pese: gli svizzeri sono molto più soddisfatti della propria vita e hanno livelli medi di reddito molto più elevati rispetto agli ungheresi – e questo, quando si guarda a grandi aggregati, può avere un effetto di distorsione la cui dimensione è tuttora da valutare, anche se, per le ragioni esposte nella conclusione dell’articolo, si tende a pensare che questa sarà limitata.
Il blog di Nicolò Cavalli: