DUBAI – A Dubai le chiamano “le single”. Sono migliaia di giovani donne che, per lavorare come domestiche a meno di 200 euro al mese, lasciano il proprio paese d’origine, molto spesso i figli e partono. Arrivano dalle Filippine, dall’Etiopia, dallo Sri Lanka, dall’India, dal Bangladesh, dall’Indonesia. In comune hanno un sogno: poter un giorno vivere e lavorare in Italia. Nell’immaginario che si è creato tra le maid di Dubai, il nostro paese è ancora sinonimo di grande ospitalità e di una buona qualità della vita.
Negli Emirati, invece, la speranza di un’esistenza migliore svanisce subito, spesso appena atterrate all’aeroporto. Per tutte, il sacrificio da pagare è lo stesso: in cambio di un lavoro e di un pochi soldi da mandare a casa, sopportano non soltanto la lontananza dai propri affetti, ma rinunciano anche alla libertà. Le regole per lavorare negli Emirati sono ferree: si entra a Dubai solo con un impiego, procurato da agenzie di reclutamento nei paesi di origine o da società emiratine. Si tratta di un rigidissimo sistema, basato sulle sponsorizzazioni, che rende molto labile il confine tra legale reclutamento e tratta degli esseri umani. Una volta arrivate a Dubai, alle ragazze viene confiscato il passaporto per due anni (in tasca hanno solo la carta di lavoro), in modo che non posano tornare a casa o cambiare impiego. Non hanno diritto a ferie e la maggioranza non è neppure coperta da un’assicurazione sanitaria. In una parola, schiavitù. Per avere un’idea dell’enorme turnover di donne, basta guardare i numeri: negli Emirati ci sono circa 600 mila domestiche, l’8% della popolazione.
Jankie arriva dall’Andhra Pradesh (India) e non appena riesce ad avere un nuovo passaporto vuole tornare immediatamente a casa. La famiglia per cui lavorava la picchiava, non le dava da mangiare né lo stipendio. Anche lei è arrivata a Dubai attraverso un’agenzia di reclutamento, alla quale ha dovuto pagare 600 euro. Un giorno ha preso coraggio e, nonostante le avessero detto di non farsi più viva, ha contattato di nuovo l’agente che l’aveva portata negli Emirati, raccontando delle violenze e dei mancati pagamenti. Così l’hanno prelevata, portata in un appartamento e chiusa a chiave in una stanza. Per fortuna qualcuno ha sentito le sue grida e dopo tre giorni i vicini hanno sfondato la porta. Grazie all’aiuto di volontari indiana, Jankie è ora al sicuro, anche se senza documenti né soldi.
Quella di Melanie è invece la storia di molte ragazze filippine che, come lei, hanno lasciato tutto: ha 28 anni e nel suo paese, dove vivono i genitori e il suo bimbo di 2 anni, non aveva più un lavoro. Sua cognata le ha parlato di Dubai, «una grande città ricca e piena di lavoro», e l’ha messa in contatto con un’agenzia di reclutamento per domestiche. Le era stato promesso uno stipendio di oltre 300 euro al mese, ma una volta arrivata a Dubai ha capito subito che l’avevano ingannata e che l’avrebbero sfruttata. Deve lavorare sei giorni su sette, più di otto ore al giorno, e riceve solo 180 euro al mese. Un’ora del suo tempo vale 6 euro (é questa la cifra che pagano le famiglie), in un giorno ne raccoglie 48, ma alla fine del mese anziché 1152, a lei ne arrivano 180: il resto lo prende la società per cui lavora. Melanie vive a Karama, un quartiere popolare della città abitato in prevalenza da filippini: dormono in 15 in una stanza e dividono due bagni. Nonostante le sue condizioni di vita, ripete sempre di essere fortuna. La sua impresa di pulizie non la fa lavorare per le famiglie emiratine, ma solo per gli expat occidentali. «I locali maltrattano le ragazze – racconta – spesso subiscono violenze fisiche e anche sessuali».
Una domestica filippina scappata dal suo luogo di lavoro e accolta in un centro per il Welfare a Dubai (Afp)
E qui si apre il capitolo più tragico: secondo i dati ufficiali, ovvero le richieste di aiuto che arrivano ai diversi consolati, solo a Dubai sono quasi 100 le domestiche in cerca di protezione ogni mese. Denunciano violenze fisiche, psicologiche, sessuali e mancati pagamenti da parte dei loro datori di lavoro. Tutti i consolati spiegano che il loro personale è impegnato principalmente ad assistere le housemaid in difficoltà: quello indiano dichiara di avere circa 14 richieste al mese, la maggior parte donne vittima di tratta; quello filippino (il più organizzato, con una linea telefonica dedicata per le emergenze) ha invece 2-3 richieste al giorno. Il consolato dello Sri Lanka aiuta fino a 20 donne ogni mese, mentre quello del Bangladesh, nonostante arrivino da Dacca circa 400 ragazze al mese, non ha nessun numero sulle richieste di aiuto. Il supporto che i consolati cercano di dare è cibo, a volte un tetto sotto il quale dormire, assistenza medica e un volo di ritorno nei paesi di origine.
Il fenomeno in realtà è molto più vasto e il sommerso immenso, come spiega Suad (il cognome preferisce non venga pubblicato), una coraggiosa donna etiope che da anni aiuta le maids sue connazionali. Suad riceve 3 o 4 telefonate ogni settimana. Il suo numero ce l’hanno tutte: le condizioni delle domestiche etiopi sono infatti le peggiori. Sono le meno pagate, lavorano a tempo pieno (24 ore su 24 e sette giorni su sette) e principalmente per le famiglie emiratine. Anche per questo sono molto richieste: arrivano voli con 40-50 donne ogni giorno, per un totale di 20mila ragazze circa all’anno. Il loro stipendio arriva a mala pena a 80-100 euro al mese.
«La maggior parte di loro – racconta Suad – proviene da remoti villaggi dell’Etiopia. Sono totalmente analfabete ed è molto facile che cadano nel vortice della tratta». Viene promesso loro un ottimo lavoro a Dubai e, dopo avere venduto tutto quello che hanno per pagare le agenzie di reclutamento (principalmente capre, precisa Suad), partono. Il prezzo che pagano è di 300-400 euro, per loro un’enormità. Una volta arrivate all’aeroporto di Dubai, vengono prelevate da un agente che confisca loro passaporto, cellulare e le accompagna dalle famiglie per le quali dovranno lavorano. A questo punto diventano invisibili, prigioniere delle case che devono servire.
Hawa è scappata da una famiglia di emiratini ed è andata subito da Suad in cerca di aiuto. Ha appena 17 anni e le hanno dato un passaporto con una data di nascita falsa perché potesse comunque entrare negli Emirati. È riuscita a fuggire dalle terribili violenze dei suoi datori di lavoro che, oltre a picchiarla e minacciarla, le hanno rasato persino i capelli. «La moglie era gelosa delle attenzioni del marito per me. Penso sia questo il motivo per cui mi picchiavano e mi urlavano dietro tutto il giorno». Sono in molte a raccontare della gelosia delle donne emiratine nei loro confronti e delle molestie, che spesso sfociano in aggressioni sessuali, dei mariti. Le davano un solo pasto al giorno e non poteva telefonare a nessuno. È fuggita senza sapere dove andare, rischiando il carcere: chi viene trovato a vagabondare, infatti, viene arrestato.
Lo skyline notturno di Dubai (fonte Wikipedia)
Si stima che nella prigione femminile di Dubai ci siano oltre 4000 domestiche fuggite dalle famiglie. In carcere subiscono violenze sessuali dai poliziotti e si ammalano, molto spesso di Aids. Hawa ora vive con altre trenta ragazze in una sola stanza, in attesa che Suad, grazie all’aiuto di volontari e a collette, riesca a raccogliere i soldi per un biglietto aereo di ritorno ad Addis Abeba. «Il grosso problema – spiega ancora Suad – è che queste ragazze non vogliono tornare in Etiopia per non deludere le proprie famiglie. Quindi stanno qui, cercando un nuovo lavoro, che quasi sempre è illegale, non dà loro il permesso di soggiorno ed è pagato ancora meno».
Per le “single” di Dubai non sembra esserci via di uscita. E spesso la disperazione porta fino al suicidio. Le associazioni umanitarie, Human Rights Watch soprattutto, da anni fanno pressioni sul governo perché abolisca il sistema delle sponsorizzazioni: primo passo per eliminare, o quantomeno disincentivare, la tratta. Il business, però, è troppo redditizio. Anche per i Paesi di origine delle ragazze, che contano sulle loro rimesse per contrastare la povertà. L’altra strada possibile è quella degli accordi tra governi, che non risolve il problema, ma almeno lo argina. Le Filippine si sono mosse per prime, minacciando gli Emirati di non mandare più ragazze se non garantiscono stipendi adeguati, condizioni di vita dignitosi e un minimo di diritti umani. Al consolato, però, la fila di chi chiede aiuto continua a essere lunghissima.