Vivono immersi in un mondo digitale, ma ancora non si rendono conto dei nuovi rischi che questo comporta. Studenti e giovani professionisti sono, sempre più spesso, vittime di reati perpetrati sul web ai danni dei loro dati sensibili. In particolare, il 25% di loro ha a che fare con il furto dell’identità prima dei 30 anni, una conseguenza diretta della sottovalutazione dei rischi e di una condivisione sempre più open delle proprie informazioni online.
Un’indagine svolta da Cisco Systems, multinazionale americana del networking con cinque sedi in Italia, fotografa un allentamento dei confini della privacy causata soprattutto dalla diffusione dei social media. Secondo quanto risulta dalla ricerca diffusa in questi giorni, uno studente universitario su tre (il 33%) non ha problemi nel condividere online informazioni personali e non si interessa della privacy. Sono dati che rendono bene l’idea di come, ancora oggi, il problema legato alla protezione dei propri dati sensibili sia estremamente sottovalutato. La sorpresa è che questo atteggiamento riguarda soprattutto i giovani, i cosiddetti “nativi digitali”. «Questi dati» spiegano gli analisti di Cisco, «forniscono una visione futura di come verranno indirizzate le informazioni online dalla prossima generazione di professionisti, sia per le attività aziendali che per quelle personali».
La violazione degli accorgimenti più elementari per la sicurezza della privacy rappresenta un malcostume diffuso, sia negli studenti che nei lavoratori. Tra i giovani professionisti che conoscono le policy IT delle loro aziende, 7 su 10 hanno ammesso di non rispettarle con regolarità. Quali le ragioni? La più frequente è la convinzione di non fare nulla di sbagliato (35% degli intervistati). Uno su cinque (22% globalmente, 15% in Italia) dichiara invece l’esigenza di accedere a programmi e applicazioni non autorizzati per fare il proprio lavoro, mentre il 18% (il 10% in Italia) ha dichiarato di non avere il tempo di pensare alle policy mentre lavora. Secondo due intervistati su tre, inoltre, le policy devono essere modificate: in particolare, vengono giudicate troppo restrittive quelle che proibiscono l’uso di siti di social networking (Facebook, Twitter e YouTube, così come i giochi online, sono vietati da 3 aziende su 10). Questa richiesta muoverebbe, secondo gli intervistati, dall’esigenza di una maggiore flessibilità lavorativa.
«La forza lavoro di prossima generazione vuole un accesso maggiormente aperto alle informazioni e ai social media» commenta John N. Stewart, chief security officer di Cisco. «I dati presentati forniscono una visione dettagliata di come si debbano adattare le policy IT e di sicurezza per una migliore mobilità e produttività, continuando a gestire il rischio. Se implementata correttamente, la sicurezza abilita la mobilità e l’accesso ai social media con un conseguente miglioramento della produttività».
Un altro fattore di rischio è rappresentato dalle cosiddette connessioni aperte, quelle cui è possibile accedere senza bisogno di una password. Sembra incredibile, ma nell’era del 3g e delle tariffe flatrate ci sono molti giovani che cercano di “scroccare” la connessione altrui, esponendosi così al rischio di vedere finire i propri dati nelle mani sbagliate. Uno studente universitario su cinque (19% globalmente, il 23% in Italia) ha ammesso di aver utilizzato la connessione wireless del vicino senza permesso. Una percentuale simile ha inoltre dichiarato di posizionarsi fuori dai negozi per utilizzarne gratuitamente la connessione wireless. Tendenze confermate anche tra i lavoratori: in generale, due professionisti su 3 (il 64%) hanno ammesso di aver avuto almeno uno di questi comportamenti.
I dati raccolti da Cisco si sommano a quelli pubblicati lo scorso giugno dall’Eurobarometro, secondo cui il 60% degli europei che utilizzano internet – ovvero il 40% di tutti i cittadini dell’Unione – fa acquisti online e frequenta i social network, rivelando i propri dati personali, compresi dati biografici (quasi il 90%), sociali (quasi il 50%) e sensibili (quasi il 10%). Anche in quella ricerca emergeva con chiarezza la portata del problema: un’ampia maggioranza degli intervistati (il 62%) aveva infatti ammesso di non capire, non leggere, o di ignorare l’esistenza delle informative sulla privacy.