È in questi giorni che forse appariranno più chiari i nuovi rapporti di forza nelle relazioni con Tripoli. Mentre il presidente del Consiglio Nazionale libico Mustafà Abdel Jalil è oggi in Italia, per decidere che fare del Trattato d’amicizia italo-libico, in queste settimane si gioca una partita più ampia con al centro il petrolio e i fondi libici congelati in Europa e negli Stati Uniti. Al di là delle dichiarazioni e della riattivazione del Trattato è probabile che questi passaggi segnino comunque la fine di una lunga relazione privilegiata tra Roma e Tripoli. Le condizioni internazionali sono cambiate, la Libia è diversa e l’Italia anche. L’Italia rimarrà comunque un partner importante, non può essere altrimenti data la complementarietà delle due economie e la familiarità nelle relazioni economiche e commerciali. I nuovi libici sembrano meno propensi a desiderare «il grande gesto» che chiedeva Gheddafi, la costruzione di un’autostrada, e preferirebbero altro: il trattato lascia aperta questa possibilità parlando di «infrastrutture di base». Jalil non vuole rinunciare a 5 miliardi di dollari in 20 anni, ma forse mira a stemperarne gli aspetti politici.
È ampiamente noto, come emerge chiaramente in vari documenti diplomatici dell’amministrazione statunitense, che il Trattato italo-libico non sia stato troppo gradito dagli Usa, ma anche da Francia e Gran Bretagna. Numerosi i motivi di fastidio, a cominciare da quell’articolo 4 che faceva presupporre un patto di non aggressione tra i due paesi e poneva dubbi sulla compatibilità con quello Nato, per finire con gli accordi con Finmeccanica oppure con le scuse per il passato coloniale che creavano un precedente giuridico internazionale ed esponevano clamorosamente le capitali della potenze coloniali per antonomasia: Parigi e Londra. L’Italia dovrebbe tenerne conto e darsi una nuova scala di priorità: il primo segnale da dare è quello della discontinuità nelle relazioni con Tripoli rispetto ai legami con Gheddafi. Vista anche la situazione economica italiana, aver combattuto per la conservazione di un Trattato oneroso firmato con Gheddafi che pure ci dava vantaggi competitivi potrebbe essere controproducente con i futuri governanti libici (quanto resisterà in carica Jalil?).
Quello che bisognerà conservare sono gli interessi nel campo dell’energia. Difficilmente si può stare a lungo senza il petrolio e il gas libico. Essendo gli idrocarburi circa il 95% delle entrate, sotto il regime di Gheddafi la politica energetica ha costituito il capitolo più rilevante della politica economica del paese. Lo rimarrà anche nel prossimo futuro. Da questo dato deriva l’importanza riservata dalla nuove autorità libiche a una rapida ripresa della produzione dell’attività estrattiva. Quasi sorprendente se guardiamo alla ripresa delle attività produttive in scenari post-bellici come l’Iraq. La Libia è già tornata a produrre la metà di quanto produceva giornalmente lo scorso anno. L’Eni il 70 per cento. Tuttavia le incognite sulla politica energetica della Libia rimangono aperte. Il sistema di gestione dell’esplorazione e produzione degli idrocarburi per ora non è stato toccato.
L’atteggiamento libico sembra apparentemente improntato al pragmatismo e finalizzato alla piena riattivazione dell’industria. Nouri Bourrien, nuovo responsabile della compagnia nazionale libica (Noc), ha dichiarato che la Libia continuerà a fare affidamento sui tecnici e i quadri intermedi che operavano nella compagnia sotto il regime di Gheddafi «sulla base della loro competenza e non sulle connessioni con Bengasi».
Proprio sul piano più strettamente politico le dichiarazioni atte a rassicurare gli operatori stranieri da parte dei nuovi dirigenti del Cnt sono state numerose negli ultimi mesi, ma non sempre chiarissime. Il presidente del Cnt Mustafà Abdel Jalil aveva già dichiarato il 15 settembre che la futura Libia avrebbe rispettato i patti precedenti e che chi aveva maggiormente aiutato nel rovesciamento del regime avrebbe avuto la priorità nei futuri contratti, annunciando però al contempo la possibilità che alcuni contratti possano essere rivisti per corruzione. Questa dichiarazione, poi avvalorata da altre successive degli alti vertici libici, è apparsa come una mossa che lascia ampia possibilità discrezionale sulla revisione dei contratti stipulati negli ultimi anni dal regime di Gheddafi.
Quello che invece appare chiaro anche dalle ultime nomine governative è una netta preponderanza dei “tecnocrati” nella gestione di alcuni settori chiave come quello petrolifero. La nomina di Abdal Raman Ben Yezza, un alto funzionario del settore con esperienze all’interno della Noc, del consorzio americano Oasis operante in Libia e all’interno dell’Eni, prima in Libia poi in Italia, a ministro del Petrolio sembra dimostrare chiaramente come il Cnt sia determinato a mantenere questo settore nelle mani di esperti, con importanti connessioni internazionali, salvaguardandolo dalle battaglie politiche tra le varie fazioni. L’Italia sembra uscirne bene. Jalil oggi ha ringraziato l’Eni per il ruolo avuto in Libia in questi mesi.
In prospettiva l’emergere di partiti e formazioni politiche di riferimento islamico in Libia e nell’intera area apre incognite difficilmente prevedibili anche sugli indirizzi di politica economica che questi, una volta al potere, potrebbero intraprendere. In particolare è evidente che le linee di “populismo islamista” che queste nuove classi dirigenti potrebbero tenere, avranno una certa influenza anche nella gestione della politica economica del paese e quindi del settore energetico. In prospettiva la futura classe dirigente libica dovrà dare una soluzione o trovare una sintesi a uno storico dilemma: quello di una gestione “più libica” delle risorse, con tutti i limiti di know-how di oggi, o di una gestione più esterna, con il rischio di esporsi a critiche di natura nazionalistica.
In quest’ottica, sul piano finanziario è ragionevole pensare che il nuovo governo possa voler impiegare gli ingenti capitali investiti nei propri fondi sovrani nel sostentamento dell’economia locale, anche solo per dare un segno politico differente rispetto al passato. Il pericolo teorico potrebbe essere quello di dismissioni forzate degli investimenti esteri per dirottare i capitali verso l’interno del paese. Anche qui il rapporto privilegiato tra Italia e Libia potrebbe essere terminato. In futuro i libici, come molti altri paesi dell’area mediorientale (es. Arabia Saudita) potrebbero decidere di impiegare la rendita per vasti programmi di sussidio alla popolazione nel tentativo di placare le possibili motivazioni di protesta (Jalil è stato contestato ieri a Bengasi).
Mario Monti ha annunciato oggi lo scongelamento di 600 milioni di dollari, poca cosa rispetto ai 7 miliardi complessivi che l’Italia detiene come depositi e investimenti nelle sue banche. Monti e Jalil si sono accordati sulla possibilità di utilizzare “i fondi scongelati” per recuperare i crediti delle aziende italiane in Libia.
La prudente – è un eufemismo – politica di “scongelamento” dei fondi da parte dei paesi europei sembra finalizzata a garantirsi una continuità degli investimenti libici e a porre condizioni politiche, come la stabilità del paese e la garanzia dei propri interessi, al loro ritorno in mano libica. Per l’Italia: scongelamento dei fondi in cambio degli interessi Eni e dei crediti delle aziende. I soldi libici fanno molto comodo in questo momento non particolarmente felice dell’economia e Jalil sembra molto più morbido e manovrabile di Gheddafi.
*Ricercatore Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi)