CAGLIARI – Crescita industriale troppo modesta, settore edilizio in calo, comparto turistico sempre più debole e livello di disoccupazione contenuto a stento. Questo il quadro, per niente roseo, che emergeva dal rapporto di Bankitalia riguardante la situazione economica della Sardegna, in caduta libera da anni. Pochissimi e fragili i segnali di miglioramento rispetto al biennio 2008-2010, durante il quale si registrò una flessione con picchi di ben -3,9% nel 2009. E l’aggiornamento congiunturale di novembre 2011 non faceva altro che confermare questi dati: le analisi di Bankitalia su un campione di imprese sarde mostrano infatti una contenuta spesa destinata agli investimenti, una lieve riduzione della produzione nel settore edilizio e una debolezza delle vendite nel settore commerciale, a cui si accompagna il netto peggioramento della congiuntura del comparto turistico. Il mercato del lavoro segnala un leggero incremento dell’occupazione grazie a una moderata crescita delle assunzioni a tempo determinato, ma evidenzia anche un consistente numero di persone non attive e un elevato il ricorso alla cassa integrazione.
I dati forniti dagli aggiornamenti congiunturali non spiegano però dove affondino le radici dei problemi che hanno portato a un quadro tanto svantaggioso. «Più che i dati congiunturali, che oggi riflettono anche da noi una crisi internazionale, contano le tendenze di lungo periodo» dice Francesco Pigliaru, docente ordinario di Economia Politica presso la facoltà di Giurisprudenza di Cagliari ed ex direttore del CRENoS, il Centro Ricerche Economiche Nord-Sud dell’Università di Cagliari e Sassari. «Il settore industriale in Sardegna è condizionato da scelte più politiche che economiche fatte tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70, anni nei quali si decise di puntare enormi risorse pubbliche per creare una sorta di industrializzazione forzata, scegliendo produzioni di base ad alto rapporto capitale lavoro, cioè produzioni che non richiedessero un contesto di sviluppo, per via dello scenario sardo, poco favorevole all’industria. Quella scommessa, molto rischiosa, è stata persa. Oggi lascia il posto a macerie nel verso senso della parola: fabbriche chiuse e spesso un territorio devastato».
Quella sarda è un’industrializzazione voluta dall’alto per uscire dalla situazione economica rurale che, secondo il pensiero politico comune di quaranta e cinquant’anni fa, manteneva la regione in una condizione di svantaggio rispetto al resto d’Italia. Ma è stata una scelta che ha inevitabilmente tolto spazio e risorse a un’economia che privilegiasse lo sviluppo di produzioni locali. «Probabilmente abbiamo abdicato troppo presto all’idea che si potesse fare sviluppo e crescita economica basandosi su alcune produzioni locali e tradizionali» sostiene Stefano Usai, attuale direttore del CRENoS e professore associato di Economia Politica presso la facoltà di Scienze Politiche di Cagliari.
«L’industrializzazione forzata nasceva dal dogma dello sviluppo economico basato sul passaggio dall’agricoltura arretrata ad una manifattura moderna e efficiente. Sebbene ci fosse un fondo di verità in questo, l’applicazione è stata tuttavia troppo radicale, e non ha lasciato margini perché si investisse in misura adeguata sulla trasformazione e modernizzazione nei settori dove avevamo chiari vantaggi comparati. Ora dobbiamo riconquistare quegli spazi».
Fino a circa vent’anni fa però il settore industriale generato da questa industrializzazione forzata della regione occupava una porzione importante della forza lavoro sarda. «Il 14% della forza lavoro totale, mentre il dato medio nazionale era più alto di circa 11 punti percentuali» spiega Pigliaru. «Per anni una parte del mondo politico e sindacale ha letto questo semplice confronto (14% contro 25%) nel modo sbagliato, ritenendo che rappresentasse la prova certa dell’esistenza di un “modello di sviluppo” verso il quale orientare gli aiuti pubblici al settore produttivo: far crescere il peso dell’industria sarda nella direzione del dato medio nazionale».
Ex miniera di Serbariu a Carbonia (Flickr – Roby Ferrari)
È bene dunque individuare le strategie per prospettare uno sviluppo economico che prescinda da un settore industriale importante, privilegiando invece settori che in Sardegna trovano un contesto più favorevole, come la pastorizia, la produzione agricola e il turismo. Stefano Usai mette al centro della propria riflessione un coordinamento tra piccole e medie realtà economiche, con investimenti in infrastrutture sostenibili ed economia “verde”: «Non ci sono facili ricette e anche quelle più alla portata vanno contestualizzate alle differenti realtà territoriali. Si dovrebbe cercare di eliminare evidenti asimmetrie informative tra produttori e mercato potenziale e cercava di favorire il coordinamento tra attori economici piccoli e medi per sopperire alla piccola scala, sfruttando all’esterno dell’impresa un minimo di economie dimensionali.
L’importanza del coordinamento è cruciale in particolare nel settore del turismo, dove abbiamo bisogno di garantire una maggiore capacità del nostro sistema produttivo di rispondere alla domanda di beni e di servizi di una industria che è sempre più articolata e complessa, riprendendo a essere attrattivi rispetto ad iniziative industriali esterne per portare competenze e professionalità, oltre che lavoro. In questo la Sardegna, come l’Italia, soffre di una perifericità che ci taglia completamente fuori dai flussi di capitali che possono essere importanti canali per favorire l’occupazione ma anche il trasferimento di conoscenze e esperienze. Dobbiamo assicurarci in altri termini quella che viene chiamata “capacità di assorbimento”, per fare in modo che il nostro sistema economico sia in grado di intercettare le novità e i nuovi paradigmi tecnologici ai loro primi passi. Per permetterci di sfruttare gli spazi relativamente liberi dei nuovi prodotti e dei nuovi mercati».
Anche per il professor Pigliaru il problema non è avere o meno abbastanza industria, quanto piuttosto essere o meno in grado di sfruttare adeguatamente i punti di forza della regione. «Le piccole economie devono specializzarsi più delle grandi, seguendo i segnali di mercato. E bisogna anche conoscere le grandi economie prima di raggiungere qualsiasi conclusione», continua, portando come esempio qualche cifra riguardante le grosse economie mondiali: «Negli Stati Uniti, nel 1970, la quota di lavoro manifatturiero nella forza lavoro complessiva era pari al 23%; nel 2003 era scesa a poco più del 10%. Nello stesso periodo la stessa quota è diminuita di 20 punti percentuali in Gran Bretagna (oggi è intorno al 10%), di 15 punti in Germania, di 12 in Giappone, di 10 in Francia, e così via».
Scendendo in un’analisi dettagliata dei settori principali della micro economia sarda, Pigliaru pone maggiore attenzione sull’agroalimentare e sull’agricoltura, rilevando le potenzialità trascurate dei due comparti: «Le esportazioni di beni agricoli sardi verso il resto del mondo sono praticamente inesistenti (qualche milione di euro), e quelle dei beni agro-alimentari sono sotto i duecento milioni di euro. In questi settori si riscontrano sempre gli stessi problemi: il prezzo del latte ovi-caprino, per esempio. Molti parlano di un prezzo basso causato dall’esistenza di un cartello tra gli industriali della trasformazione. Ma per aggirare il monopolio sarebbe sufficiente portare il latte dove il mercato è più vasto,e la qualità è premiata meglio di quanto accada in Sardegna».
Ed è proprio la qualità dei prodotti uno degli argomenti cardine della discussione: «Il prezzo del latte è determinato dalla qualità, dal valore del prodotto finito. Capita però che il principale prodotto finito in Sardegna si chiami pecorino romano, un formaggio che nessuno di noi consuma e che si vende solo a condizione che il suo prezzo sia molto basso. Quindi usiamo una natura fantastica per produrre un bene di scarsa qualità, immediatamente sostituibile non appena il prezzo sale di qualche centesimo al chilo. Un altro esempio è la peste suina. Siamo l’unica regione in Europa con questo problema apparentemente irrisolvibile ma che tutti in realtà hanno risolto da tempo. Come ha dimostrato una recente inchiesta sul quotidiano Nuova Sardegna, a volte può essere più conveniente avere un maiale malato che uno sano, grazie ai compensi regionali che superano il valore di mercato».
Ciò che si delinea dall’analisi del quadro economico sardo è dunque una sorta di sudditanza economica a criteri obsoleti e logiche tutte politiche. Individuare una via d’uscita necessita manovre economiche decise e una volontà politica di supportare patrimoni non solo aziendali, ma territoriali, culturali e anche tradizionali. Le istituzioni locali (Regione e Provincia) possono influire decisamente in questo. «Tutti gli esempi che abbiamo riportato fin qui sono uniti dimostrano che la qualità dell’intervento istituzionale è il fattore essenziale dello sviluppo», sostiene infatti Pigliaru, «le migliori riviste internazionali di economia sono piene di articoli che confermano questa affermazione: con istituzioni buone si crea sviluppo, con istituzioni mediocri non si esce dal sottosviluppo. Il problema è che, in molti ambiti, giocano male il loro ruolo. Per favorire lo sviluppo del settore caseario, per esempio, sarebbe ragionevole smettere di spendere soldi pubblici con il solo risultato di tenere “incastrata” una parte troppo grande del comparto nel vicolo cieco economico del pecorino romano. Così come per salire nella scala della qualità di un turismo sostenibile ad alto valore aggiunto, bisognerebbe smettere di spendere un sacco di soldi per tenere in vita carrozzoni che da decenni dovrebbero risolvere il problema delle bonifiche e invece pagano solo stipendi».
Stefano Usai individua una delle soluzioni al problema anche nella capacità, aldilà degli interventi di sostegno alle imprese e agli imprenditori, di valorizzare la diversità e fare investimenti strutturali per assicurare che funzionino i veri motori della crescita economica: conoscenze, capitale umano, ricerca e progresso tecnologico: «Penso che si debba imparare soprattutto dalle esperienze di successo e possibilmente sfruttare il possibile traino che può derivare dal fatto che il nome Sardegna è noto in virtù del suo mare, del suo ambiente e dalla sua natura selvaggia e poco contaminata dalla presenza dell’uomo» commenta Stefano Usai, approfondendo poi il discorso relativo al comparto turistico e quello agroalimentare: «Il turismo, ma anche molti prodotti del settore agroalimentari, si sono imposti sul mercato internazionale non sempre e non solo in ragione di politiche di sostegno e di aiuto. Questi esempi devono servire per tracciare la strada con cui riuscire a sostenere quei prodotti che hanno maggiori potenzialità nel mercato nazionale e internazionale, perché contengono qualità ed elementi caratteristici che li rendono diversi dalle produzioni già presenti sul mercato».