A giudicare dall’ultima copertina di Time del 2011, l’Italia resta ancora una volta fuori dal mondo. The protester non abita qui, e in verità non ci ha mai abitato. Quel che è accaduto nei paese arabi non ci ha nemmeno sfiorato e il movimento dei cosiddetti indignados resta altro da noi (visto che i banchieri finiscono al governo). A meno di voler elevare al rango di protesta quella festicciola di un sabato sera autunnale, quando un po’ di famiglie si sono date appuntamento in piazza del Quirinale, a Roma, per festeggiare l’uscita di scena di Silvio Berlusconi, il “tiranno” di casa nostra. L’evento dell’anno resta quello. Il 2011 si era presentato come l’anno del bunga bunga ed è finito con la parola spread sulla bocca di tutti.
Dal Cavaliere a Mario Monti. Il cattedratico, Il signore di Goldman Sachs, il rappresentante dei poteri forti (ma quando mai un potere è stato debole?). In due mesi l’Italia si è abituata a lui e il professore ci ha preso anche gusto. Il suo non era un compito facile, ma nemmeno difficile. Ha trovato un Paese senza difese, ormai sfinito dalle cronache soft-core, dai ditini medi alzati, da un linguaggio triviale in stile scuole media e da una depressione economico-finanziaria che ha cominciato a bussare a un numero sempre crescente di famiglie.
Hanno tirato un po’ di sangue, il professore e il suo governo della sobrietà. Qualcuno ha mugugnato, ma poi si è massaggiato con l’ovatta e magari nei giorni successivi ha avuto da ridire sull’ematoma. Nulla di più. Se questa è la medicina, proviamola. Le immagini della Grecia hanno messo paura, anche se in tanti hanno fanno finta di voltare la testa dall’altra parte.
E poi Monti sarà pure professore, ma è arrivato accompagnato dai genitori. Dal padre, a dirla tutta. Dall’uomo cui oggi in tanti si aggrappano: Giorgio Napolitano. Per ironia della sorte, un comunista, un rappresentante di quella parte politica che per quindici anni Berlusconi ha agitato come il peggior incubo per gli italiani. Certo, un comunista atipico. Uno di quelli che osò criticare Berlinguer sulla scala mobile e che osò persino gettare più di un ponte verso Bettino Craxi, il nemico giurato. Un eretico, insomma, e anche uno, diciamolo, che le sue battaglie politiche le ha perse praticamente tutte. Ma ora non conta più niente. E nessuno se lo ricorda.
L’Italia e gli italiani non riescono a osservare in modo imparziale, devono tifare. E ora il tifo è tutto per lui. E con lui, di fatto, è cominciato il 2012, con il tradizionale discorso di fine anno. Che ha innescato la solita giostra: una pioggia di elogi alle immancabili frasi da bar dei leghisti. Il nuovo anno è cominciato come era finito il vecchio. Coi morti per i botti di mezzanotte, con i sindacati che agitano lo spettro della tensione sociale, coi partiti alla conquista di titoloni con dichiarazioni inutili. E le bombe a Equitalia, recentemente entrate nella tradizione e di cui forse varrà la pena soffermarsi un po’ di più in questo 2012. Se ne parla poco, troppo poco, e mai ci si chiede che cosa ne pensano i cittadini.
L’Italia riprende con la sua solita immagine, quella di un Paese accartocciato su sé stesso, incapace di abbracciare uno sguardo di ampio respiro che si volga un po’ più in là del proprio orticello. Magari proprio su questo dovremmo riuscire a lavorare. Meno Montecchi e Capuleti. Ma anche meno folgorazioni tardive e improvvise, come Twitter ad esempio. Forse nemmeno la globalizzazione aiuta: oggi i leader appaiono umani, sin troppo, deboli e impaurite creature rispetto al mostro della crisi, o anche al rincorrersi dei pettegolezze.
Nel nostro piccolo, noi de Linkiesta ci prendiamo la nostra fetta di responsabilità. Siamo quasi al termine del primo anno di vita e, pur tra tante soddisfazioni, sappiamo che uno dei nostri principali obiettivi era di capire e raccontare questo Paese, e siamo ancora lontani dall’assolverlo. Ma tempo ne abbiamo, e la volontà e la tenacia non mancano.