Il popolo della Lega Nord esiste. È bastato chiamarlo a raccolta e ha invaso Milano e riempito Piazza del Duomo. Vista dal livello del terreno la manifestazione di oggi ci racconta i tratti profondi di una base che ormai si sente leghista: leghista e nient’altro. Leghisti come una volta ci si diceva comunisti o democristiani. Leghisti come fosse un destino. Leghisti come sinonimo di veneti, lombardi, padani, tassati e tartassati, vittime innocenti di Roma, delle banche e così via. Quella base sembra in parte importante pronta a consegnarsi a Maroni, al di là del balletto un po’ democristiano inscenato anche oggi da Bossi. Ma quel che conta, oltre i politicismi tipici di un vero partito di potere italiano, è un’altra cosa: la Lega ha un popolo che può sopravvivere al suo consunto conduttore. Con i suoi codici, le sue retoriche, i suoi slogan che hanno ormai attraversato un secolo e addirittura un millennio. E il governo Monti è il carburante perfetto. Il regalo che ci voleva per inscenare un ritorno a quelle origini mitologiche che il loro popolo rivendica di non aver mai abbandonato.
L’aria professorale, il rigore dopo l’inazione, le maglie strettissime per evitare il default del nostro stato indebitato, i primi attacchi all’evasione fiscale: tutto riporta i leghisti a quando avevano vent’anni di meno, e a “mettere le mani nelle tasche degli italiani” erano Ciampi e Amato.
Nel mezzo, a Roma come a Milano e a Venezia, i leghisti hanno cambiato ruolo e peso, e hanno governato. Ma a sentirli uno dopo l’altro, i Cota e gli Zaia, introdotti da quel Belotti che è capo-ultras dell’Atalanta e assessore regionale di Formigoni, sembrano non aver mai messo piede a Roma. Perfino Bossi non ha paura di arrischiarsi nell’antica invettiva contro Roma Ladrona, quella che la Lega non doveva perdonare. Già. Come se in mezzo non ci fossero stato anni e anni di co-governo leghista, otto degli ultimi dieci fedelmente al fianco di Silvio Berlusconi, e quasi venti ormai avvinghiati ai Formigoni e ai Ponzoni.
I popoli dei partiti dogmatici di massa, si sa, non amano i dubbi né i distinguo. E non è davvero importante se, questo stato così centralista e questa macchina pubblica così inutilmente costosa sono sopravvissuti così com’erano ai governi pieni di leghisti in prima fila. La piazza padana, raccolta nel tepore di piazza Duomo, ha gli stessi nemici di allora e qualche aggiornamento da fare al manuale del vittimismo. Lo Stato. Le tasse troppo alte. Le multinazionali che vanno a produrre a Taiwan. I forestali calabri. E così via.
Mentre il capitalismo occidentale è addirittura attraversato da dubbi sul suo destino, i leghisti si sono rimessi nel posto che più gli somiglia, quello più comodo. All’opposizione viscerale, dove a tutto si dice di no, dove la piazza si riempie facilmente e dove il piccolo mondo antico sembra sempre bello. Hanno tanti torti e una ragione destinata a durare: questo paese a due velocità continua a essere un assurdo logico difficile da spiegare al mondo. Fino a quando non sarà sciolto il nodo di un sistema iniquo, non è pensabile che smetta di esistere il leghismo. Questo popolo invecchiato e ripetitivo, come i proclami e i gestacci di Bossi, vive di tutti i problemi che non ha saputo affrontare e risolvere. Ma i problemi e le iniquità restano tali, anche se li cavalca chi, in un paese dotato di un minimo di memoria, sarebbe ridotto al silenzio che si merita chi ha promesso senza mai mantenere.