VIGEVANO – «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste». Così iniziava il reportage di Giorgio Bocca pubblicato su Il Giorno del 14 gennaio 1962, in cui si parlava di Vigevano, città in provincia di Pavia, tra i simboli dello sviluppo industriale del secondo Dopoguerra. In Italia e in Europa Vigevano, oltre ad avere uno dei centri storici più belli (ribattezzato il “Salotto d’Europa”), al cui progetto partecipò anche un certo Leonardo, era riconosciuta come la “capitale della scarpa”.
“Mille fabbriche, nessuna libreria”, recitava il titolo del lungo reportage che Bocca aveva dedicato a quella città di «abitanti cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una». Ritornati quarant’anni dopo e si trovano sì tre librerie, ma un economia in crisi, e quella mentalità di adattamento che latitava allora, forse latita anche ora.
«Oggi Vigevano è una città morta – racconta Rolando che quel boom l’ha vissuto da lavoratore – non c’era cultura ai tempi e non c’è nemmeno oggi. I padri avevano un minimo di cultura imprenditoriale, ma erano dei ‘gnurònt’ (ignoranti nel dialetto locale). E se ti manca la cultura per adattarti ai tempi come fai a sopravvivere nel mercato? Poi sono arrivati i figli che hanno studiato, ma in fabbrica le mani non se le sono mai sporcate e preferivano andare a fare gli sboroni con la barca del papà a Portofino. Avevano la spocchia dei neo-ricchi questi giovani che sono stati incapaci di portare avanti le aziende dei padri, e oggi mi sembra anche peggio».
Subito dopo la guerra lo sviluppo industriale di questa città, posizionata geograficamente a metà tra Milano, Pavia e Novara fu frenetico. L’economia si basava quasi esclusivamente sulla produzione di calzature, macchine per calzature e accessori. All’inizio degli anni ’60 si contavano circa 870 imprese (censite) e poco meno di trentamila addetti, molti dei quali provenienti anche da fuori città.
Vigevano era la rappresentazione più fulgida del miracolo economico del Nord, non a caso il direttore de Il Giorno, Italo Pietra, spedì Giorgio Bocca in questa cittadina di provincia apparentemente senza qualità. Un centro dove l’ingente patrimonio culturale , scriveva lo stesso giornalista, è la «testimonianza di un antico fervore intellettuale naufragato e spentosi sulle rive del Ticino».
«Vigevano – riprendeva di nuovo Bocca su Il Giorno – dove i contadini possono diventare ciabattini e i ciabattini industriali nel volgere di poche settimane. Avanti popolo, la ricchezza è a portata di mano, di fallimento non si muore e se va bene va bene, il denaro circola». Tutto vero quello che ha scritto Bocca, confermano anche in un bar del centro, «ci ha visto lungo». Il miracolo era davvero un miracolo costruito tra «il disordine, il dilettantismo e il rifiuto di ogni regola associativa». Giorgio Bocca, che non aveva capito perché il suo direttore lo avesse spedito proprio a lì nella nebbiosa Lomellina, si domandava come «questi rappresentanti di commercio, meno che monoglotti» fossero arrivati alla conquista dei mercati mondiali. Si stupì quando il suo interlocutore “appena alfabeta” ebbe a dirgli «A me se mi chiudono il Congo me ne sbatto. Io ti penetro in Birmania e aumento le vendite».
La fabbrica Ursus gomma a Vigevano
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Impossibile acquistare un libro a quei tempi, non c’erano librerie. Una era in via del Popolo, una delle vie che porta sulla bellissima Piazza Ducale. Ma quando Bocca arrivò per fare il suo reportage era chiusa da poco più di un mese. Non si leggeva, ma i capitali aumentavano, come aumentavano le imprese e i lavoratori. «In ogni palazzo – ci racconta ancora Rolando che di Vigevano conosce ogni angolo, anche il più sperduto – c’era almeno un’azienda. Registrata o no, ma c’era una casa in cui la madre prendeva la macchina da cucire per la figlia e chiamava a lavorare l’amica per fare da garzona».
Il bello della Vigevano di quegli anni? «Che si viveva tutti discretamente, dal vigevanese imprenditore benestante all’ultimo degli immigrati calabresi o veneti». Ma allo stesso tempo quello fu anche il brutto, «perché agli inizi degli anni ’60 nessuno si preoccupava di cosa sarebbe venuto dopo e anche gli autunni caldi, per dire, qui sono stati tiepidi, anche perché al governo cittadino c’erano i socialcomunisti, quindi a parte quattro o cinque esagitati, che però si muovevano più verso Milano, qui si tirava avanti senza patemi. Quando gli operai rivendicavano più denaro – dice Rolando mentre si accende una sigaretta – i “padroni” allungavano sempre qualcosa e tutto si chetava. Poi magari ci si mandava al diavolo immediatamente dopo, ma al posto in fabbrica ci si teneva, anche perché vi lavoravano intere famiglie». L’imperativo era lavorare, lavorare, lavorare senza badare al mondo, senza investire in formazione. Chi assumeva un ragioniere doveva prendersi del “matto” al Caffè Commercio dagli altri imprenditori a cui bastava la «signorina che aveva fatto l’avviamento».
Insomma, tanti soldi (pochi dichiarati al fisco), tanto lavoro, poca ostentazione, una vita politica che non interessava particolarmente la cittadinanza e tanta noia. Poca cultura, tanto che Giorgio Bocca, anni dopo durante un’intervista, definì Lucio Mastronardi, autore del libro Il Maestro di Vigevano, da cui prese ispirazione il film col grande Alberto Sordi, un “pazzo” a scrivere in una città dove «si pensa solo a fare scarpe». Un personaggio, Mastronardi, verso cui l’amministrazione cittadina non nutrì mai molta simpatia, salvo poi pentirsi dell’atteggiamento tenuto e intitolare allo stesso Mastronardi la biblioteca civica dopo la sua morte per suicidio nel 1979.
Quell’imprenditoria disordinata e isterica non poteva durare e verso la metà degli anni ’60 il miracolo produttivo iniziato nel decennio precedente inizia a spegnersi: oggi a Vigevano in molti non esitano ad additare proprio quella «incapacità imprenditoriale ad adattarsi alla dimensione internazionale», dovuta anche al fatto – sentenzia più d’uno – che all’accrescimento economico non era seguito un adeguato accrescimento culturale.
Intanto negli anni ’80 e ’90 a Vigevano si affaccia anche la lunga mano della criminalità organizzata. È qui che la cosca Valle (salita alla ribalta della cronaca lo scorso primo dicembre perché avrebbe coinvolto nella propria ragnatela di contatti anche due giudici di Reggio Calabria e Palmi e un consigliere regionale) si insedia, secondo un rapporto di Polizia, almeno dal 1984. Fanno fortuna con l’usura, fino alla coraggiosa denuncia di una imprenditrice locale che li trascina fino in tribunale facendoli condannare all’inizio degli anni ’90. Scontata la pena si sposteranno sul Milanese, ma la città non può di certo dirsi ormai immune dal cancro.
La ex-Ursus gomma oggi
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Oggi la crisi morde alle caviglie la città, che negli anni ha visto proliferare una cementificazione quasi selvaggia fatta di quartieri anonimi e qualche cantiere abbandonato di troppo. Arrivando da Milano e seguendo subito la strada per il centro storico ad accoglierci c’è il fantasma di una struttura mai completata. L’azienda è fallita prima di finire il lavoro e il monolite di mattoni e cemento fa bella mostra di sé proprio all’ingresso della città. Abbandonato a se stesso cintato da una rete di ferro divelta.
Sulla circonvallazione esterna sembra di passare davanti a una di quelle città anonime dell’hinterland milanese note per i centri commerciali e capannoni industriali. Difficile credere che a qualche chilometro di distanza si trovi quel “salotto d’Europa” tanto pieno di storia quanto in letargo precoce. Farvi una passeggiata, soprattutto d’inverno, dopo aver mangiato una pizza a cena potrebbe essere una esperienza desolante: difficile trovare un bar aperto per il caffè, non perché manchino, ma perché chiusi e altrettanto difficile incontrare altra anima viva dopo le nove di sera.
Intanto le giornate lavorative passano e il trend della crisi che attanaglia la provincia di Pavia non risparmia di certo Vigevano. Si calcola infatti che dal 2008 in provincia si siano persi almeno 5mila posti di lavoro, a cui se ne aggiungono altri mille nel comparto pubblico, con una crescita prevista nel 2012, che sarà praticamente pari allo zero. Nel terzo trimestre del 2011, come fa notare anche Lorenzo Rampa, docente di Economia e prorettore dell’Università di Pavia, in una recente intervista a La Provincia Pavese, «Nel terzo trimestre del 2011 la produzione industriale pavese è cresciuta dell’1.5 per cento: mezzo punto al di sotto della media lombarda che è al 2 per cento: questo significa che alla fine dell’anno possiamo aspettarci una crescita zero o, addirittura, l’inizio della recessione». Insomma, la Vigevano dei “venticinquemila operai” e dei “milionari a battaglioni affiancati” non esiste più, inoltre un recente sondaggio su un centinaio di imprese della provincia di Pavia ha dimostrato che difficilmente si tornerà ad assumere, se non professionalità altamente specializzate. I dati non sono confortanti. Secondo i dati Unioncamere nel 2010 il tasso di natalità imprenditoriale ha superato solo di 0,4 punti quelli di mortalità. A una azienda aperta corrisponde quasi una fallita.
Nella Vigevano di oggi le aziende della calzatura non arrivano al centinaio e tra quelle più grandi, seppur con qualche difficoltà negli ultimi tempi, rimane a galla «la fabbrica del Moreschi», come usano chiamarla da queste parti, ormai un marchio internazionale dal 1946. Oggi impiega 400 addetti e produce circa 240mila paia di scarpe l’anno, ma, dicono in città, nonostante il prestigio «la crisi ha bussato anche da quelle parti». Passata la periferia, un alternarsi tra le nebbie di quartieri popolari a volte abbandonati a sé stessi, come la zona della cosiddetta Brughiera, e villette più o meno grosse, si avvicina il centro città col porfido a terra e qualche negozio chiuso.
Di librerie ora ce ne sono tre, una che fa fortuna con i testi scolastici, l’altra con testi di ispirazione strettamente cattolica e una piccola Feltrinelli all’ingresso del porticato della Piazza Ducale. Fino a qualche mese fa ve n’erano altre due, ma non sono durate nemmeno un anno: far capire che vendere libri non è come avere una drogheria è sempre un’impresa. In corso Garibaldi, sempre a pochi passi dal centro storico, c’era una libreria di quelle dove il libraio sapeva consigliarti, ma dopo anni di onorato servizio ha dovuto cedere il passo.
Sono tanti i simboli di questa Vigevano nel centro storico: il Duomo, dove è custodito un tesoro che potrebbe sfuggire anche ai turisti più attenti vista la mancanza di indicazioni, la torre del Bramante, il Castello Sforzesco, il “San Giovannino” dove generazioni di vigevanesi si sono sempre seduti quando c’erano le “compagnie”.
Casa Duse e una libreria chiusa. Ora in città ce ne sono tre, ai tempi di Bocca neanche una
Statua di San Giovanni
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Se Bocca ricordava i negozi di Vigevano come quelli di via Montenapoleone a Milano, allora non sbagliava, oggi qualcuno che quei prezzi li applica c’è ancora, ma c’è chi medita di scappare dal centro città «per via degli affitti, sono troppo alti». Intanto ci ritroviamo in via Riberia, che qualcuno ironicamente (altri meno ironicamente) ribattezza Maghreb. Il motivo si capisce subito quando a metà strada sulla sinistra compare la macelleria Il Nilo. Insegne e scritte strettamente in arabo e in tv Al Jazeera. Su quasi 64mila abitanti gli stranieri, regolari, sono quasi 9mila. I più numerosi sono gli egiziani, seguiti da romeni e albanesi, arrivati quasi tutti nella prima metà degli anni ’90. Alcuni sono anche riusciti ad avviare attività in proprio, altri sono muratori, fanno lavori manuali, mentre altri ancora si sono infilati nel giro delle droghe e qui a “spacciare” non ci sono problemi. D’altronde lo stesso Bocca rimarcava la difficoltà nell’evadere la noia, e qui si evade tra un aperitivo a uno dei lounge bar fuori la piazza, magari ostentando un automobile in cui si fatica anche a far benzina, e una serata nei locali del lungo Ticino dove si beve, si fuma e si incontrano facce note.
«Ci sono tanti immigrati – dice un amministratore di condominio – che stanno in sei o sette in qualche metro quadro, ma la maggior parte di quegli appartamenti è di proprietà di italiani che subaffittano per lucrarci sopra. Anche troppo». Moltissime sono le ragazze che più o meno giovani riescono invece ad alloggiare, come badanti, nelle case dei datori di lavoro e degli anziani che devono accudire. Spesso, nei pochi momenti di svago, si ritrovano al parco davanti Piazza Calzolaio d’Italia, dove una volta vi era l’esposizione internazionale della calzatura, e oggi un anonimo edificio dell’anagrafe comunale. Così si nota il contrasto anche tra il nuovissimo residence costruito dove una volta sorgeva la fabbrica “Ursus Gomma”, dove all’esterno sono mantenuti tutti i loghi della stessa fabbrica, quasi a non voler recidere completamente il cordone col passato, e gli edifici diroccati appena in fianco, dove i padroni di casa descritti dall’amministratore di prima incassano affitti da capogiro per pochi metri quadrati. Per la città, lo si voglia ammettere o meno, l’immigrazione è stato ed è un valore aggiunto, quando si riesce a integrare. Anche se il rischio di “ghettizzare” qui è sempre dietro l’angolo.
I giovani qui, alla sera, non hanno molto da fare: o ci si uniforma al lounge bar e al locale del lungo Ticino o si salta dalla finestra, a meno di non possedere, per i maggiorenni, un’automobile e raggiungere l’unico locale che anche d’inverno propone musica dal vivo. Fuori città. Anche le partite della locale squadra di pallacanestro non sono più un passatempo: manco a dirlo il quintetto ducale ha incontrato il fallimento della società. Lascito con la complicità della scorsa amministrazione comunale? Un palazzetto dello sport nuovo di zecca costato 12 milioni di euro di soldi pubblici e utilizzato numero una volta per partite ufficiali di seria A2. Il calcio cittadino, dopo i fasti della serie B ai tempi di Lido Vieri e un paio di giocatori regalati alla nazionale negli anni ’30 naviga a vista nelle serie minori, sull’orlo del collasso economico e con una gestione poco limpida. Alcune squadre del settore giovanile si devono allenare nel campo sportivo del supercarcere per la mancanza di strutture.
Siamo di fronte a una città che di fatto è diventata un autentico dormitorio di Milano. La mattina centinaia, se non migliaia di pendolari affollano la stazione ferroviaria che non sembrerebbe fatta esattamente su misura per una cittadina di 64mila abitanti. Il treno è in ritardo pressoché cronico, le obliteratrici non funzionano. «Non farci caso – dice un ragazzo di vent’anni diretto a Milano verso l’università – è così tutte le mattine».
Una città lenta che si è ritrovata quasi senza fabbriche, con tre librerie, quattro cinema sostituiti da sale da gioco e bingo, una politica che qualcuno chiama «dei proclami», che si esalta se qualche ordinanza viene ribattezzata anti-kebab (dai social-comunisti si è passati a un monocolore Lega Nord. Vigevano è stata una delle prime città a vedere la Lega staccarsi dal Pdl), una classe imprenditoriale o scomparsa o emigrata.
Eppure le qualità per rilanciare la città, tra le nuove generazioni ci sono. Gli studenti che si spostano tra Pavia e Milano per prepararsi al mondo del lavoro non sono pochi, ma si trovano poi a fare i conti con un mercato cittadino saturo e poco produttivo. Sui treni per Milano non è infatti difficile incontrare non solo impiegati e lavoratori del terziario in generale, ma anche operai diretti verso il capoluogo lombardo. Flusso quarant’anni fa praticamente impensabile, senza poi contare i ragazzi emigrati all’estero. «Non si riesce a valorizzare né il patrimonio artistico – confida uno dei ragazzi della biblioteca civica che ci ha accompagnato a recuperare lo scritto di Bocca – né le persone. Qui sono in scadenza dopo quattro mesi di contratto, ho provato il bando per la biblioteca civica di Milano, vedremo. È dura trovare un lavoro qui». La sfiducia in provincia è tanta e risulta difficile immaginare una situazione diversa.
Insomma, in questa città, soprattutto se state a colloquio con qualche “neo-ricco” oggi cinquantenne o sessantenne, occhio a parlare di start-up, o potreste sentirvi (ri)dire al Caffè Commercio (oggi chiuso) «ti te s’è matt». E così senza allettanti prospettive produttive, poche probabilità di sviluppo economico e sociale, Vigevano, specchio di quel miracolo economico post-bellico al Nord, rimane oggi la fotografia sbiadita della crisi e della mentalità provinciale diffusa in tutto lo stivale che non ha retto la concorrenza di altri Paesi. Anche nella manifattura, fiore all’occhiello dell’economia italiana e, quando arrivò Giorgio Bocca, della città di Vigevano.
Il palazzetto dello Sport
La Stazione di Vigevano