È arrivato il momento. A meno di clamorosi dietrofront, Facebook invierà alla Sec, la Consob americana, i documenti necessari alla quotazione a Wall Street. Parte dunque il conto alla rovescia per accaparrarsi un pezzettino del sogno di Marc Zuckerberg, il 27enne fondatore del social network che conta 800 milioni di utenti attivi in tutto il mondo. «La gente vuole andare su internet e curiosare sugli amici. E allora facciamo un sito che dia a tutti quello che vogliono: foto, profilo, magari cerchi qualcuno che hai conosciuto a una festa. Io parlo di prendere l’intera esperienza sociale del college e metterla in rete», dice Gessy Eisenberg, che interpreta proprio il giovane studente di Harvard in The Social Network, pellicola diretta da David Fincher che ha portato sul grande schermo la storia del gioiellino creato da Zuckerberg.
Come quantificare economicamente l’esperienza sociale traslata sul web è la vera domanda alla quale stanno cercando di rispondere esperti e analisti almeno dal 2007, quando per la prima volta si è parlato di quotazione. Secondo quanto riferiva stamani il New York Times, la società è valutata complessivamente tra i 75 e i 100 miliardi di dollari, meno di un terzo dell’attuale capitalizzazione di Apple (340 miliardi di dollari circa), mentre l’offerta sarà di circa 5 miliardi di dollari – tra i 30 e i 40 dollari per azione – più del doppio del valore (1,92 miliardi) che venne offerto da Google nel 2004 quando sbarcò al Nasdaq, l’indice dei titoli tecnologici Usa. Sempre il quotidiano della grande mela riportava a inizio gennaio 2011 che Goldman Sachs e un investitore russo ancora sconosciuto avevano investito 500 milioni nella società con sede a Menlo Park (CA).
La banca d’affari statunitense è anche coinvolta nel consorzio di collocamento guidato da Morgan Stanley, specialista del comparto, e composto da Barclays, BofA-Merrill Lynch e JP Morgan: la créme de la créme di Wall Street. I big, insomma, si sono messi in fila pur di non lasciarsi scappare l’occasione di quella che si preannuncia come la più grande quotazione di una società tecnologica nella storia della borsa americana, e che dovrebbe andare in scena a fine maggio. Nei primi nove mesi del 2010 la società californiana, stando a un documento di Goldman Sachs ottenuto dalla Reuters, ha segnato un utile di 355 milioni di dollari e ricavi pari a 1,2 miliardi di dollari.
Numeri in crescita così come la compagine azionaria, ma quando una società sfonda il muro dei 500 azionisti è obbligata a fornire alla Sec una mole di informazioni rilevanti equiparabile ad una società quotata. Ecco perché Facebook ha scelto la strada dell’Ipo, ma non solo: «Aprire i propri libri e pubblicare informazioni con un elevato livello di dettaglio, rendendo la società più trasparente senza i benefici derivanti dalla quotazione non era più sostenibile», spiega a Linkiesta Marc Vos, partner di Boston Consulting Group con un passato nella Silicon Valley, che osserva: «Tuttavia, come spesso accade nelle start up, ci sono molti dipendenti ai livelli apicali con stock options che valgono milioni di dollari, i quali stanno esercitando una fortissima pressione sul top management, poiché la quotazione significa poter fare cassa. Teniamo poi conto che il Senato Usa ha prolungato la detassazione sui grandi patrimoni fino a fine 2012».
Se è difficile dare una valutazione del social network basata su logiche puramente finanziarie, prevedendo cioè l’utile per azione nei prossimi anni partendo dai flussi di cassa, è invece possibile ipotizzare con ragionevole certezza dove andranno investite le nuove risorse che reperirà sul mercato: «Le direttrici dello sviluppo di Facebook saranno la fruizione mobile, basti pensare che nel mondo 3 miliardi di persone possiedono un cellulare rispetto al miliardo di persone che ha un pc, e l’ulteriore integrazione, attraverso il video e il voip, di una piattaforma di comunicazione globale fra aziende, Governi, istituzioni e individui», nota ancora Vos.
Un ruolo diverso da Twitter, il social media verso il quale stanno virando sempre di più gli Usa, Paese che, al primo gennaio 2012, aveva 110 milioni di utenti attivi stando ai dati raccolti da Semiocast. In Italia, che è fuori dai primi 20 Paesi che cinguettano di più, Facebook è invece preponderante. Qual è l’impatto della massima: “Su Twitter sei sincero con gli sconosciuti, su Facebook menti agli amici”
«Il confronto con Twitter è forzato», afferma la sociologa Monica Fabris, che argomenta: «la vera funzione di Facebook, pur tra i mille modi che le persone hanno di stare sul social network, è di tipo emotivo, e si è diffuso così massivamente perché rappresenta una risposta eccezionale a bisogni del nostro tempo in termini di rassicurazione. Nell’epoca di massima atomizzazione identitaria, Facebook ha dato una risposta eccezionale. Con la nuova timeline è possibile osservare il tentativo di porre l’identità in un percorso lineare, sia sincronicamente che diacronicamente. Insomma, aiuta a comporre tracce che restano in un momento in cui le persone hanno difficoltà a dire chi sono davvero». Anche per questo, secondo Fabris, saranno le applicazioni a generere più valore aggiunto in termini di ricavi: «Facebook realizza con utenti un legame di isomorfismo, quindi ciò che passa sul social network ha molta più autorevolezza e vicinanza simbolica ed emotiva con gli utenti, mentre la pubblicità è l’antitesi di tutto ciò che rappresenta Facebook, la cui grandezza sta nel non contenere interessi, ma nell’essere contenitore degli interessi di tutti».
La strada che sta battendo Facebook, che per la società di consulenza eMarketer ha accresciuto del 17,7% i suoi ricavi pubblicitari online in Usa nel 2011, superando Yahoo!, è quella segnata da Google: capire gli interessi delle persone e intersecarli con le aziende disposte a pagare per intercettarli. Ogni utente del motore di ricerca di Mountain View, secondo gli esperti, vale mediamente 90 euro, ed è con questi numeri che si deve confrontare la creatura di Zuckerberg. «Google si è quotata nel 2004 e c’è ancora eccitazione attorno alla società» dice a Linkiesta Scott Kessler capo della ricerca di Standard & Poor’s nel settore tecnologico, che spiega: «Non credo le valutazioni preliminari su una Ipo in arrivo, che fissano un prezzo elevato alla società, significhino una bolla del settore».
Twitter: @antoniovanuzzo