«Ho visto trucidare molti bambini». Al capo del villaggio «furono cavati gli occhi, poi fu scorticato e baionettato». Al prete di Ohannes «furono cavati gli occhi, tagliata la barba, naso e orecchi, e in quello stato fu fatto ballare, poi sollevato per aria con le baionette e finalmente strangolato». «Circa seicento persone s’erano rifugiate nella Chiesa di Sup-Merapan, e ufficiali, capi curdi e soldati vi penetrarono, scelsero sessanta fra le più belle donne e le allontanarono, le altre furono date ai soldati, ai quali fu detto di far come piaceva loro: essi infatti le violarono e poi le uccisero, e se ne vedeva il sangue scorrere a rivi dalla porta della chiesa». «Furono portati dei grandi vasi di petrolio, col quale si incendiarono alcuni villaggi». Una ragazza armena, «per non farsi musulmana ed essere violata, seguita da altre tre, si uccise buttandosi da un precipizio sull’Antog-Dag». Guardando una donna armena, due soldati turchi «fecero una scommessa sul sesso del bambino, e senz’altro la sventrarono e con le baionette estrassero il feto».
Dalle viscere dell’Archivio Segreto Vaticano emerge, oltre un secolo dopo, la sconvolgente testimonianza del primo genocidio degli armeni. A trascorrere lunghi mesi tra le carte conservate negli scaffali della Città Leonina è stato uno studioso polacco, Marko Jacov, che ha appena dato alle stampe il volume La questione d’Oriente vista attraverso la tragedia armena (1894-1897). Mentre Parigi e Ankara litigano per la legge voluta dal presidente Nicolas Sarkozy per perseguire il reato di negazionismo del secondo genocidio armeno (1915-1916), il libro è molto più che una pur preziosa ricognizione storiografica. Diplomaticamente, è una mina sul percorso dei delicati rapporti tra la Turchia e la Santa Sede. Tanto che il modo accidentato in cui libro di Jacov è venuto alla luce è una storia nella storia.
Per capire perché la pubblicazione di una ricerca archivistica ha creato fibrillazione tra Ankara e la Segreteria di Stato vaticana è necessario fare un passo indietro. Cioè a quando l’elezione di Ratzinger al soglio pontificio si è abbattuta sui rapporti tra il governo di Recep Tayyip Erdogan e il Palazzo apostolico. Papa Wojtyla aveva stabilito con tutto il mondo islamico un rapporto di cordialità, sottraendo la Santa Sede alla montante ideologia di uno “scontro di civiltà”.
Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, aveva schierato la Chiesa cattolica contro la guerra in Iraq, con una mossa che aveva alienato al Vaticano la simpatia degli Stati Uniti ma gli aveva conquistato quella delle masse del mondo arabo e mediorientale. Anche con la Turchia i rapporti erano eccellenti. Fino al 19 aprile del 2005. Quando si affacciò dal loggione centrale di San Pietro il nuovo Pontefice, nella memoria di politici e diplomatici turchi era ancora fresca la dura presa di posizione con la quale il cardinale Ratzinger, un anno prima, aveva bocciato l’ingresso di un paese musulmano come la Turchia nell’Unione europea.
I timori si trasformarono in aperta contestazione quando, nel settembre 2007, Benedetto XVI pronunciò il celebre discorso di Ratisbona, letto in tutto il mondo musulmano come un affronto alla memoria del profeta Maometto e, più fondamentalmente, un’accusa di irragionevolezza all’Islam. Il primo a protestare, non a caso, fu il gran muftì turco Ali Bardakoglu. Da lì a qualche mese la Santa Sede ebbe modo di precisare il senso del discorso papale e di riallacciare i rapporti con il paese anatolico, tanto che proprio con il viaggio del Papa in Turchia, tra fine novembre e inizio dicembre, andò in scena la ricucitura dello strappo, immortalata nella scena di Ratzinger assorto in preghiera accanto al muftì nella moschea blu di Istanbul.
La pace raggiunta era però fragile. Non tanto per altre iniziative diplomatiche della Santa Sede (quando il Papa si recò a Cipro, nel 2010, il Segretario di Stato, card. Tarcisio Bertone, si adoperò, senza successo, per realizzare una mediazione vaticana tra la metà greca dell’isola e la metà occupata militarmente dai turchi nel 1974). Piuttosto perché la situazione dei cristiani in Turchia è andata via via peggiorando. Erdogan, a capo di un partito islamico moderato, ha portato avanti il suo progetto di trasformare la Turchia in un perno degli equilibri mediorientali.
Per realizzare questa “terza via”, però, ha scatenato le reazioni tanto dei settori dell’esercito legati al laicismo di Atatürk, quanto dell’anima fondamentalista dell’islam anatolico. Va probabilmente inquadrato in questo contesto sia l’omicidio di don Andrea Santoro nel 2006, sacerdote missionario a Trebisonda (Trabzon), quanto l’uccisione, nel 2010, di mons. Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia. Queste morti non solo hanno aumentato l’apprensione dei cristiani del Medio Oriente, oggetto di persecuzione in vari paesi, ma hanno anche preoccupato non poco la diplomazia vaticana, incerta sulla capacità del governo Erdogan di assicurare l’incolumità dei propri fedeli.
In questo quadro di sottile diffidenza reciproca, Marko Jacov si è messo a studiare le esplosive carte sul primo pogrom degli armeni per mano della Sublime porta. Suscitando l’allarme della Turchia.
A grandi linee la storia è nota. A fine Ottocento gli armeni dell’Impero ottomano – circa due milioni – chiesero sempre più insistentemente riforme per ottenere maggiore autonomia fiscale e amministrativa. Una pretesa che non intendeva mettere in discussione la fedeltà al Sultano, ma che si intrecciò con i sommovimenti geopolitici che accompagnarono il declino della Sublime porta.
«In seguito al Congresso di Berlino (1878) – si legge nel volume di Jacov – l’Inghilterra entrò militarmente in Egitto e la Francia affermò la propria presenza e influsso nel Maghreb, in Siria e in Palestina. A quel punto l’Asia minore divenne un’area in cui si metteva in forse non soltanto l’esistenza dell’Impero Ottomano, ma anche il futuro di un possibile Stato nazionale turco. Proprio con lo scopo di impossessarsi del cuore dell’Impero Ottomano prima della sua disgregazione, l’Inghilterra utilizzò i comitati rivoluzionari armeni per provocare una sollevazione degli armeni stessi. Così scoppiarono le rivolte armene a Sassun nel 1894 e a Costantinopoli nel 1895. Seguì l’assalto alla Banca ottomana nel 1896. La popolazione armena rivendicava il diritto alle riforma ma non aspirava ad una indipendenza e tanto meno ricorreva ad atti di violenza per realizzare i propri diritti, riconosciuti tra l’altro anche dal Congresso di Berlino. Gli armeni volevano dunque una vita normale per se stessi ed un futuro migliore per l’Impero, di cui per secoli furono sudditi fedeli e leali. Perciò il Sultano non aveva nessun fondamento per muovere, come fece, la macchina bellica del suo esercito per sterminarli».
Il pogrom anti-armeno fece decine di migliaia di vittime, e una massa incalcolabile lasciò l’Impero ottomano per sfuggire al massacro. «Il fatto è – scriveva il britannico Malcom MacColl citato nel volume – che, dietro a quel cadavere recalcitrante che risponde al nome dell’indipendenza della Turchia, si nasconde, ci dicono alcuni, la Questione d’Oriente, la quale spargerà fuoco e fiamme ai quattro lati dell’Europa».
La scorsa primavera, il libro di Jacov era in stampa. Non era la prima volta che lo studioso si occupava dell’argomento. In precedenza lo storico polacco aveva pubblicato un articolo intitolato «Leone XIII, la diplomazia europea e la questione armena». Ma ora stava per dare alle stampe un intero volume, denso di dettagli, reportage, testimonianze dirette del massacro in cui perirono migliaia di armeni. Documentazione mai pubblicata tratta sia dall’Archivio segreto vaticano, sia dagli archivi del Quai d’Orsay, il ministero degli Esteri di quel paese, la Francia, che di lì a poco avrebbe approvato la legge che ha fatto infuriare Erdogan. Ce n’era abbastanza perché Ankara si allarmasse. Appena la notizia della pubblicazione del libro filtrò dal Vaticano, la Turchia si è attivata.
Non ci sono conferme ufficiali, ma a quanto apprende Linkiesta gli ambienti diplomatici turchi presenti a Roma si sono discretamente messi in contatto con alti funzionari della Segreteria di Stato ed hanno recapitato l’apprensione di Ankara che una simile pubblicazione avesse dei contraccolpi difficili da gestire sui rapporti bilaterali.
Il timore, inoltre, era che rimestare quella antica ferita prestasse facilmente il fianco alle correnti di pensiero europee anti-turche. «Questo tipo di protesta non sorprende, visto quello che è successo poco dopo con la Francia…», commenta un prelato in Vaticano che preferisce mantenere l’anonimato. «Eppure – prosegue – certe reazioni non si capiscono. Certo, iniziative come la legge francese sul negazionismo lasciano perplessi, ma se si interviene per evitare la pubblicazione dei libri… Un conto è la polemica politica, altro è l’interferenza nella ricerca scientifica».
Forse la distinzione non è così facile da fare. Tanto più quando si tratta di vicende che affondano sì le radici nel passato remoto, ma possono trovare nella cronaca di questi anni dei singolari ricorsi. E quando non manca – nella galassia cattolica come nelle sfaccettature della politica turca – chi è interessato a utilizzare il passato storico per reinterpretare ideologicamente il presente politico, facendo leva sulla contrapposizione tra Occidente e Oriente o vedendo nelle persecuzioni che i cristiani subiscono in questi anni in Medio Oriente un riflesso di contrapposizioni avvenute nei secoli passati.
Quel che è certo è che il libro, che doveva essere pubblicato in primavera, è uscito solo a fine 2011, e non per mano della Libreria editrice vaticana. A pubblicarlo a Cracovia – in italiano – è stata l’Accademia polacca delle scienze e delle lettere. La Santa Sede non ha dato nessun patrocinio all’opera. Il libro è giunto a fine gennaio in alcune – poche – librerie intorno al Vaticano. E nella prefazione, non firmata, si ricorda come la «presa di coscienza» del genocidio in corso «non fu immediata a motivo delle notizie, inizialmente confuse e distorte, che provenivano dall’Anatolia. In tale contesto emerse l’azione di papa Leone XIII, che mostrò un preveggente interesse per la questione armena a dispetto delle illazioni in contrario mossegli da taluni autorevoli giornali di orientamento laico e sostanzialmente anticlericale che negando i massacri accusavano il pontefice di organizzare, col pretesto di difendere gli armeni, una nuova crociata. In un primo momento la stampa sembrò fungere da cassa di risonanza della propaganda del sultano Abdul Hamid II e della Sublime porta, affermando che sarebbero stati gli armeni i responsabili della tragedia che li aveva colpiti. Lungi da cedere a qualunque tipo di propaganda, il papa si rivolse direttamente al sultano, con cui aveva mantenuto e coltivato precedentemente buoni rapporti, con la richiesta di fermare il massacro in corso e ordinò al suo Segretario di Stato, il cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, di comunicare ai nunzi di intervenire presso i governi delle Potenze a favore degli armeni».
In appendice del libro, oltre cento pagine di preoccupati dispacci di militari, uomini di Chiesa e ambasciatori pontifici, francesi, italiani, tedeschi, portoghesi inglesi, e poi ancora tabelle dettagliatissime su luoghi delle stragi, numero di morti, case e chiese distrutte. «Merita apprezzamento – si legge nella prefazione – lo sforzo compiuto dal nostro autore per trarre dalle molte fonti notizie dati sui luoghi e sulle persone implicate nel tragico genocidio con la redazione di comode tabelle riassuntive. Abbiamo così una mappa geografica e una scansione cronologica dei massacri che non si scorre senza una forte e negativa impressione delle crudeltà perpetrate».
Contabilità storiografica della tragedia, di una memoria storica ancora troppo incandescente per i rapporti tra Turchia e Santa Sede. Ad Arapkir il 5 novembre 1895 «les victimes des massacres s’elevennt à trois mille». A Hankddoum il 23 ottobre 18954 «le pretre der-khatt, un venerable vieillard, a eté massacré». A Malatia da ottobre a dicembre «uccisi: 3630 aemrni gregoriani, 70 armeni cattolici». Ad Abana il 24 ottobre 2895 «les femmes er jeunes filles armeniennes qui, pour plus de securité s’etaient refugées aux villages grecs des environs, y ont subi les derniers outrages de la part des turcs, et plusiers d’entre elles ont eté enlevées».