Due cittadini indiani uccisi. Due soldati italiani accusati di omicidio. Serviva la tragedia perché in Italia si tornasse a parlare di India. Il gigante economico del futuro, come l’ha definita il Nobel dell’economia Michael Spence in una recente intervista a Linkiesta. Di colpo il pubblico italiano scopre il porto di Kochi, un tempo anche nota come Cochin. Ironia della sorte, fu proprio un italiano il primo occidentale a menzionare la città portuale: Niccolò de’ Conti, grande viaggiatore veneziano che raggiunse Kochi nella prima metà del Quindicesimo secolo.
In effetti i rapporti tra India e Italia, iniziati ufficialmente nel 1947 (anno dell’indipendenza indiana), sono molto più antichi. O almeno lo sono i rapporti commerciali tra le due civiltà. I romani spendevano somme enormi per acquistare le mercanzie indiane, facendo indignare Plinio il Vecchio: ogni anno, scriveva l’autore della Naturalis historia, ben 50 milioni di sesterzi finivano in India.
E italiani erano Marco Polo e il beato Odorico da Pordenone, primi viaggiatori dell’Europa cristiana a mettere piede in India, descrivendola come una terra vasta e ricchissima (a ragione: secondo le stime dell’economista britannico Angus Maddison, intorno all’anno Mille il Pil indiano superava perfino quello cinese, ed era tre volte il Pil dell’Europa occidentale).
Alzabandiera dell’esercito indiano (Afp)
Tornando ai giorni nostri, si può dire che i rapporti tra la Repubblica Italiana e quella dell’India non hanno mai subito forti tensioni. Anzi: secondo il sito dell’ambasciata indiana a Roma, «le relazioni tra i due Paesi sono cordiali e amichevoli.» Forse non troppo intense: l’ultima visita in India di un nostro presidente del consiglio risale al 2007, quando a Palazzo Chigi sedeva Romano Prodi; l’attuale primo ministro indiano Manmohan Singh è venuto in Italia più di recente, nel 2009, ma in occasione del vertice internazionale a L’Aquila.
Il professor Stefano Beggiora, docente di storia dell’India presso l’Università Ca’ Foscari Venezia, e autore del saggio India e Nordest: il mercato del terzo Millennio, conferma a Linkiesta: «I rapporti tra Italia e India sono sempre stati molto buoni; in tanti hanno lavorato per sviluppare i rapporti bilaterali, diplomatici ed economici, tra questi due Paesi. Negli ultimi anni però, negli anni del boom economico indiano, l’Italia si è mossa un po’ in ritardo, orientandosi più verso la Cina che verso l’India. Ci sono però moltissime aziende italiane che stanno facendo business in India». Forse i governanti italiani non conoscono a sufficienza la realtà del subcontinente. «Da parte della nostra classe politica c’è scarsa attenzione verso l’India. – ammette Beggiora – L’India è vista come una somma di vecchi cliché, e non ci si accorge che invece oggi è una potenza, e che avremmo tutto l’interesse ad avere dei buoni rapporti, anche economici, con essa».
Naturalmente la nostra diplomazia non ignora il crescente peso, geopolitico ed economico, dell’India. D’altra parte sarebbe difficile ignorarlo. Qualche cifra basta a rendere l’idea: 1,2 miliardi di abitanti, che diventeranno 1,6 nel 2050 (più dei cinesi, cioè); un Pil che, a parità di potere d’acquisto, è già ora il quarto della Terra; un apparato bellico possente, con testate nucleari e 1,3 milioni di militari regolari. E gli indiani sanno bene di essere una potenza. «In questi ultimi venti anni si è acquisita la consapevolezza di essere un grande Paese, nonostante le grandi contraddizioni interne e le molte questioni ancora irrisolte», spiega Beggiora. «L’India è un Paese in pieno boom, che sa di avere una grandissima forza, e grandissime risorse. È un Paese che è stato anche poco toccato dalla grave crisi economica internazionale».
Quest’anno l’economia indiana crescerà, in base all’ultimo outlook del Fondo Monetario Internazionale, del 7%: meno della Cina (8,2%), ma assai di più degli altri due Bric Russia (3,3%) e Brasile (3%). Nella classifica del Financial Times Global 500 del 2011, dove sono classificate le cinquecento maggiori società del pianeta per capitalizzazione, l’India compare ben 14 volte, con multinazionali del calibro di Reliance, Tata, Infosys.
Insomma: è un colosso che se la gioca con Usa e Cina. La sua industria manifatturiera è la decima del pianeta, meglio di quella russa. Forse è mena votata all’export dell’industria cinese, dato che le esportazioni indiane valgono “appena” il 20% del Pil, contro il 27% di quelle cinesi; tuttavia New Delhi è sempre più importante anche sul piano commerciale: è al diciottesimo posto tanto nella classifica mondiale dei Paesi leader nel commercio di beni, quanto in quella dei Paesi leader nel commercio di servizi.
L’Italia sembra aver approfittato solo in parte del boom indiano, pur considerando New Delhi «partner commerciale strategico». Siamo il quinto fornitore europeo, preceduti da Svizzera, Germania, Belgio e Regno Unito, ma il gigante asiatico vale appena l’1% del nostro export. Nel 2010 abbiamo esportato merci per 3,3 miliardi di euro, importandone per 3,8: un saldo negativo di quasi mezzo miliardo di euro. Dall’Italia l’India compra soprattutto macchinari, vecchio cavallo di battaglia del Made in Italy, mentre l’Italia acquista prodotti tessili, metalli di base e derivati, prodotti chimici, etc.
Nel subcontinente sono presenti molte grandi imprese italiane, ad esempio Fiat, Benetton, Luxottica, Merloni e altre. Non si tratta, ovviamente, di un mercato facile, soprattutto per le Pmi. Come racconta un imprenditore di una media impresa del Nord, dietro garanzia di anonimato, «in India fare business è più difficile di quello che sembra. Per esempio ci sono forti differenze culturali. Meglio altri Paesi Bric, più vicini a noi, come il Brasile». Certo, alla lunga scommettere sull’India paga. «Non tutti hanno avuto il coraggio di sbarcare in India, ma per chi l’ha fatto ne è valsa la pena. – riconosce Beggiora, che aggiunge – Le imprese italiane si appoggiano spesso a uno degli uffici della Indo Italian Chamber of Commerce and Industry, che ha la sua sede generale a Mumbai. A Mumbai c’è anche l’Ice, che è istituzionale ed è diventato un punto di riferimento».
Nel complesso, però, gli investimenti italiani in India sono limitati. Siamo al diciassettesimo posto nella graduatoria totale, e settimi a livello europeo. Certo, il mercato indiano, enorme e in piena espansione, fa gola. Così come piace la manodopera locale, qualificata e a buon mercato. Tuttavia fare affari, in India, è piuttosto difficile: nel ranking ad hoc elaborato dalla Banca Mondiale, l’India è al centoventiduesimo posto, peggio della Russia e del Nepal. Senza considerare la corruzione: nel Corruption Perceptions Index 2011, è novantacinquesima, mentre era ottantesima nella classifica 2010. Naturalmente simili ostacoli possono essere superati assai più agevolmente da una grande (o grandissima) corporation internazionale, piuttosto che da una delle nostre agguerrite, ma comunque piccole, “multinazionali tascabili”. Certo, è un Paese vastissimo ed eterogeneo, con significative differenze regionali e locali; i nostri imprenditori se ne sono accorti, puntando soprattutto su due delle realtà più dinamiche: lo Stato del Maharashtra, con la capitale finanziaria nazionale Mumbai, e l’area urbana intorno alla capitale politica New Delhi.
Lo skyline di Mumbai (Afp)
Se dal punto di vista economico e finanziario i rapporti indo-italiani offrono dunque un panorama di luci e ombre, da quello politico la musica è, come già detto, un po’ diversa. Come già osservato, l’ultimo premier italiano a visitare l’India è stato Prodi nel 2007. Da allora la “più grande democrazia del mondo” non sembra aver attirato troppo le attenzioni di Palazzo Chigi (anche se è degna di nota la missione di sistema del novembre 2011, con l’allora ministro dello sviluppo economico Paolo Romani). Ben diverso l’atteggiamento tedesco, per esempio: il cancelliere Angela Merkel ha visitato l’India l’ultima volta nel 2011, portandosi dietro un folto gruppo di Ceo e rappresentanti delle maggiori imprese tedesche. Beggiora conferma: «I rapporti dell’India con il Regno Unito, la Francia e la Germania sono molto più significativi. Dal punto di vista istituzionale ci siamo mossi un po’ lentamente. In Italia si tende poi a delegare un po’ troppo: non va il primo ministro ma il vice, non va il presidente dell’azienda ma il suo primo, secondo o terzo braccio destro. E questo non piace molto agli indiani, che da questo punto di vista hanno una mentalità anglosassone: gli italiani sono percepiti come poco decisi».
Come in Cina, anche in India i tedeschi puntano sulla loro immagine di nazione tecnologica ed efficiente per meglio penetrare l’immenso mercato indiano. L’Italia, invece, sembra capitalizzare solo in parte la sua straordinaria tradizione industriale e artigianale, nonché il suo patrimonio culturale unico. È un peccato, perché gli indiani hanno interesse per l’Italia. La sempre più cospicua borghesia urbana, poi, è attratta dal nostro Paese, anche grazie ai film di Bollywood, che gli hanno fatto scoprire mete tradizionali come Venezia, ma anche più “esotiche” come Genova. Beggiora racconta: «Fino a poco tempo fa l’Italia non era ben conosciuta, ma recentemente sono stati finanziati vari progetti di diffusione e promozione del Made in Italy in India, e si è sviluppato, soprattutto nelle grandi città, un certo gusto italiano. C’è interesse per la nostra cucina, l’alta moda e il design. Alcuni nostri marchi stanno avendo molto successo».
Il palazzo presidenziale di New Delhi (Afp)
In realtà, a giudicare dai commenti di certi internauti indiani sui siti dei principali quotidiani locali, non sembrerebbe esserci grande simpatia verso l’Italia: i nostri leader vengono chiamati “mafiosi”, la condotta dei nostri militari è tacciata di “neo-colonialismo”. Tuttavia simili esternazioni non sembrano essere che lo sfogo insensato di una minoranza aggressiva e collerica. Commenta Beggiora: «In questi giorni ho dato un’occhiata anche ai giornali indiani di destra. Meglio non leggere le opinioni espresse verso di noi. Tuttavia si tratta soprattutto di provincialismo e superficialità» E se è vero che nei media indiani la versione italiana dell’incidente non trova alcuno spazio, molti indiani (e indoitaliani) accusano i media italiani di ignorare completamente la realtà indiana.
«Oggi ho sentito alla radio italiana che i nostri due soldati rischierebbero la pena di morte», racconta a Linkiesta un giovane ricercatore indoitaliano, che preferisce non rivelare la sua identità. «Questo non è vero, perché la pena di morte in India non la si applica da vari anni». È bene però aggiungere che essa non è stata formalmente abolita, e che anzi i giudici indiani continuano a comminare sentenze capitali.«Spero che un incidente come questo non venga strumentalizzato, da nessuna forza politica, né in Italia né in India», aggiunge il ricercatore. Un altro italoindiano, più anziano e con un passato da giornalista alle spalle, spiega: «È poco probabile che questo incidente venga sfruttato dai nazionalisti indiani, perché il loro partito non è forte in Kerala, che per anni è stato un bastione dei comunisti e ora è governato dall’Indian National Congress.» Entrambi hanno una speranza: che l’incidente non guasti i rapporti tra India e Italia. Non solo il popolo italiano, ma anche quello indiano, avrebbero molto da perdere.