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La grande paura di un’Italia senza Monti

Poi, un giorno, Mario Monti non sarà più al governo. Quel giorno, dice il calendario, si avvicina e il lutto sembra così difficile da digerire che fin da adesso si cerca di scongiurarlo. Di allontanarlo. Di evitare che questo accada. Il Corriere della Sera, il più autorevole quotidiano italiano da sempre voce e faro della borghesia, trafigge il sistema dei partiti oggi con un editoriale di Angelo Panebianco. È “l’amalgama inesistente”, quello composto da un Pdl allo sbando ormai sprovvisto del carisma fondatore e di un Pd sospeso in mezzo ai suoi mille guadi. Difficile dissentire da un’analisi che mette in fila alcune fotografie, e solo le più significative.

Ma non è solo da Via Solferino, dove Mario Monti è di casa da decenni, che si leva il plauso al governo di bonifica guidato dal Professore. Anche la Repubblica, con Massimo Giannini, sottolinea che il grande capitale vuole il bis. Cita Giovanni Bazoli e Federico Ghizzoni, Tomaso Cucchiani, Franco Bernabè e perfino Marco Tronchetti Provera: tutte le correnti del capitalismo italiano, anche storicamente lontane o avverse tra di loro, sono iscritte al partito di Monti. L’unico a non essere menzionato, tra i grandi vecchi ancora in sella, è l’Ingegner Carlo De Benedetti, ma nessuno dubita che anche l’editore di Repubblica sia iscritto alla corrente del “montismo” e fin dal primo giorno.

Ma non sono solo le élite a guardare con spavento alle urne che ogni giorno si fanno più vicine. E non sono solo i partiti che, repressa appena qualche inquietudine, mentre si sciolgono al primo sole non sanno certo resistere alla guida fredda e senza sbavature di Monti. No. È il paese stesso che, dopo un ventennio di urla e ribaltoni, teatrini e soubrette, promesse mirabolanti e riforme mai fatte, si ritrova tutto sommato soddisfatto del governo che ha, e poco importa se non lo ha votato. Certo, non mancano rabbie latenti e manifeste, alimentate da una crisi economica che entra sempre più a fondo nella carne viva di famiglie e imprese. Ma anche lì, dove la rabbia e la paura si fanno più buie, dove i 1000 euro che prima arrivavano a fine mese non arrivano più, c’è da giurare che un ritorno al passato non sarebbe gradito. Anzi. Nessuno ha voglia di una campagna elettorale fatta di grida e accuse, di nuove promesse fatte da bocche logorate da tutte quelle che non hanno saputo mantenere.

Il “punto di non ritorno”, l’intolleranza profonda per una classe politica rigettata dalla stessa opinione pubblica che l’ha votata fino ad adesso, ha segnato questo governo di persone competenti e presentabili. Che si comportano come fossero classe dirigente di un paese europeo qualsiasi. Che hanno redditi elevati, perché sono élite, ma li pubblicano. Che parlano di ciò di cui parlano i ministri in tutto il mondo. E così via.

La grande paura, una volta che la Costituzione democratica ci restituirà al diritto-dovere del voto, è quella di tornare indietro. Di ritrovarsi nella palude delle grida di un bipolarismo nato male e che sta mordendo anche peggio. Di riscoprire che, sotto sotto, è tra Lusi e Cicchitto, tra la Carfagna e Di Pietro, tra il vecchio Formigoni e la tattica di D’Alema che bisogna scegliere. E che, magari, per chi non voglia chiudersi nello schema del duopolio  le sole alternative siano il vecchio dito medio di Umberto Bossi o quello, poco più giovane, di Beppe Grillo.

E così, questi cento giorni sembrano i più belli degli ultimi quindici anni. Perché ci hanno fatto andare avanti. Perché all’ansia del futuro e del conto in banca non aggiungono l’ansia di una politica che pensa solo ai fatti suoi, e mai ai nostri. C’è solo un problema: il miglior governo della Seconda Repubblica non è uscito dalle urne. È uscito dal peggior parlamento della nostra storia che, arrivato sull’orlo di un baratro, ha dovuto registrare che non c’era più la maggioranza originaria e, infine, prendere la via indicata da Giorgio Napolitano e dall’Europa.

Né l’uno né l’altra, tuttavia, potranno fare molto nel 2013, quando la strada del voto ci sarà indicata di una Costituzione che ci garantisce democrazia ma non contiene gli antidoti per diventare un paese maturo. Ma che, per fortuna, ci obbliga alla democrazia rappresentativa. Sarà il caso di dimostrare, una volta per tutte, che ce la meritiamo: per non trovarci, tra una ventina d’anni, a invocare una nuova bonifica della nostra Repubblica, e ad accogliere come una notizia meravigliosa un governo capace, e naturalmente non eletto.  

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