Ci sono molti modi di ripensare alla decisione dei giudici di Cassazione di ieri, che hanno rispedito al secondo grado di giudizio il processo che riguarda i rapporti tra la mafia siciliana e Marcello Dell’Utri, amico intimo e a lungo braccio destro di Silvio Berlusconi. Si può essere semplicemente delusi o contenti, come capita quando si fa il tifo per qualcosa. Ci si può improvvisare giuristi e funamboli del processo, per argomentare dentro al merito e al metodo della decisione. Ma si può anche prendere questa decisione, che riapre i giochi e allunga di anni i tempi della “verità processuale”, con la prescrizione davvero dietro l’angolo, come a un’occasione di serenità e di libertà. Dopo tutto, non c’è bisogno di un sentenza penale per esprimere un giudizio definitivo sul berlusconismo.
Gli esperti del “berlusconismo criminale” potrebbero qui snocciolare come macchinette tutte le volte che Silvio è finito a processo, e perché. E tutte le volte che, provvidenzialmente, una legge cambiava mentre una sentenza si avvicinava. Per coincidenza, tutte le volte che questo succedeva Silvio Berlusconi faceva di mestiere il presidente del Consiglio. I suoi esagitati difensori risponderebbero che quei numeri provano solo una cosa: una persecuzione.
La realtà è ovviamente più complessa, anche processualmente parlando, ma è proprio il metodo che non funziona. Siamo di fronte a questa storia: il trionfo imprenditoriale nel campo delle tv impastato di potere politico, tanto da diventarlo in prima persona sull’onda di un sincero e assai duraturo consenso democratico. Per spiegare una storia del genere un processo penale non può bastare. E neanche mille processi: perché non può trattarsi di una storia solo criminale, magari costruita da un genio del male e da una dozzina di fedelissimi e abilissimi esecutori e tessitori.
Del resto, agli storici che possono già iniziare ad esercitarsi, le traccie da indagare non mancano.
Pensate solo al perimetro di gioco: quel “campo da calcio”, con le sue regole e i suoi rapporti di forza, che è l’Italia. In Italia i nomi grossi dell’editoria di massa, nel 1993, sono pochi, pochissimi: lo stato, con la Rai; Berlusconi; De Benedetti; Rizzoli. Questi attori, e poche decisive relazioni in campo politico, economico, bancario. Sono loro che formano e informano gli italiani su cosa è successo negli anni di Tangentopoli, quando la corruzione e gli affari parlavano la stessa lingua, e i protagonisti di quelle vicende erano anche regolatori e regolati, politici e imprenditori, corruttori o concussori, onesti e no, tutti stretti attorno a quell’oligopolio mediatico.
Ma c’è molto di più. Non ci sono solo cordate contrapposte e alleanze che cambiano nel cuore del potere: c’è un’Italia che cambia, che inventa imprese e produce improvvise ricchezza e sente lo stato come un nemico, che chiede tasse e non dà niente in cambio, e magari pretende le mazzette con più fervore di quello che mette nel chiedere le tasse che gli sono dovute. Uno stato che sembra sempre inefficienza, burocrazia, spesa pubblica inutile buttata via e perfino vera e propria mafia. Un attrice sempre protagonista della storia italiana, in ogni epoca, con cui tutti i poteri convivono, più o meno ipocritamente.
E ci sono, appena alle spalle, gli anni Ottanta del benessere che cresce. Degli immaginari televisivi, ma anche della voglia di imprenditorialità, intraprendenza, successo. Ci sono gli operai che capiscono che possono diventare padroni con il lavoro, l’inventiva e le relazioni. C’è il Nord che si riconosce consapevolmente più ricco, e sente di colpo tutto il peso di uno squilibrio con il Sud e lo vede, ovviamente, utto sbilanciato a proprio danno. Con molte ragioni, e non pochi torti. Tanto che alla fine questo nord finisce col farsi rappresentare da sodale di Marcello Dell’Utri e da un partito diventato partitocratico poltronaro e affarista come la peggior prima Repubblica, cioè la Lega Nord.
Tutti questi elementi, ovviamente, si mischiano e si agitano in modo mutevole lungo tutta l’epoca berlusconiana. Di fronte a quel blocco sta un’alternativa politica friabile come il mondo – i tanti mondi – che ambisce a rappresentare. Un’alternativa politica egemonizzata dagli antichi avversari L’assenza assoluta di azione politica di lungo periodo che ha caratterizzato l’ultimo ventennio ci hanno così condotto sull’orlo di un disastro, e soprattutto di fronte a un futuro economico e sociale incertissimo, e senza veri progetti politici che possano dire di saperlo affrontare. Ma questo disastro, che ereditiamo dall’epoca berlusconiana, non è certo colpa di uno solo, e non è pensabile cavarsela nel distribuire i torti e le ragioni solo con l’aiuto delle sentenze penali, che peraltro non arriveranno mai.
Sarà insomma compito degli storici, e non dei giudici, dire cos’è stato questo tempo, e cosa dice del nostro paese. È vero, è molto presto per trarre un bilancio storico, e nelle aule universitarie si diceva una volta, convenzionalmente, che il lavoro di storico non si esercita se non sono passati almeno trenta anni. Ma tra trent’anni questa storia sarà passato remotissimo, e soprattutto la potremo spiegare a chi per definizione non ha colpe. Sarebbe bello, invece, accellerare i tempi dell’analisi in modo che possa dare fastidio alle nostre certezze, ai nostri manicheismi, e al quieto vivere di chi lavorava, votava, decideva e consumava mentre Silvio e Marcello diventavano forti, e poi governavano in politica. È complicato, ma la fretta ce la mette quest’epoca di cambiamenti vorticosi, che ha consegnato agli storici il berlusconismo e le sue tv, con la stessa rapidità con cui internet ha cambiato il mondo.