Confindustria, chi era costei?
Tra pochi giorni sapremo il nome del nuovo capo degli industriali italiani. Si deciderà tra Giorgio Squinzi, capo di Mapei, e Alberto Bombassei che guida invece la Brembo. Il primo è in vantaggio: già capo dei chimici, è sostenuto da molte associazioni territoriali, da qualche grossa confederazione e da Emma Marcegaglia, che punterebbe alla presidenza de Ilsole24ore. Il secondo è abituato a trattative più dure, quelle coi metalmeccanici, piace nel Nordest della manifattura e delle pmi e alla Fiat. Solo che la Fiat non è più in Confindustria, e Marchionne promette che rientrerà solo se sarà Bombassei a vincere. Il primo lascia intendere che vuole una riforma light del pachiderma confindustriale, mentre Bombassei preferirebbe usare il machete piuttosto che il bisturi. Stessa linea su mercato del lavoro e articolo 18: una priorità la sua modifica per Bombassei, quasi un falso problema – da non porre in ogni caso adesso – per Squinzi.
La partita si gioca sui giornali, a colpi di pubbliche relazioni e marketing. Tra le cose che si dichiarano e quelle che si fanno filtrare, il dibattito finisce come sempre per sembrare per “addetti ai lavori”, che è un sinonimo di “poco interessante per il mondo”.
Là fuori, nel mondo, non è un momento come un altro per le imprese e i produttori italiani. Proprio mentre questa strana stabilità politica allenta la morsa dei mercati sul rischio-paese, l’economia reale soffre le pene dell’inferno, e il mitico “paese reale” ovviamente pure. Decine di milioni d’italiani vivono di economia privata, fanno impresa o vi lavorano, e vedono per lo più risultati brutti o bruttissimi. Soprattutto, mentre in America c’è una nuova effervescenza e un certo ottimismo, in Italia non se ne trova neanche traccia.
Chiusure, licenziamenti, calo delle commesse, frenata drastica dei consumi, corsa dei prezzi mentre il potere di acquisto crolla. Chi esporta dalle parti giuste vede la luce, ma sono ovviamente una minoranza. Per gli altri la gelata dura, e più dura e più fa vittime. Ogni tanto, quasi come un ciclo mediatico destinato sempre a ripresentarsi, si parla di un’ondata di suicidi tra gli imprenditori del Nordest. Decine e decine all’anno, con storie simili: un’azienda che andava bene, poi arriva la crisi, poi nessuno fa più credito, e il ciclo imprenditoriale negativo travolge la vita, la famiglia dell’imprenditore e i lavoratori.
È la faccia buia e sfidante del mestiere bellissimo dell’imprenditore, quello di chi con un’idea degli investimenti e un’organizzazione produce lavoro, ricchezza e benessere attorno a sé. È quel lato oscuro e faticoso dell’imprenditorialità che nell’epopea dell’imprenditore Silvio Berlusconi non abbiamo mai visto. “Il vostro programma è il mio programma”, diceva lui alle assemblee confindustriali che cadevano durante le campagne elettorali. Non era vero, o comunque quel programma è rimasto ampiamente inattuato.
Una piccola parte di quel “programma” l’ha messa alla fine sul tavolo un tecnico, Mario Monti. Il mercato del lavoro è un tema su cui chi fa impresa e chi si propone di guidarla non può non avere un’idea, e non è realistico raccontare che così com’è va bene. Parliamo di norme sui licenziamenti e delle procedure giudiziarie che le mettono in pratica, cioè di un tutt’uno complesse e inestricabile che molto spesso, nel dibattito politico e pubblico, vengono trattati come se fossero due universi diversi mentre ovviamente non lo sono. Non serve a molto, per intenderci, dichiarare legittimi i licenziamenti in caso di crisi aziendale, se poi la certezza del diritto arriva dopo anni di dispendioso processo in caso di ricorso.
Ma c’è tutto un altro pezzo di quel “programma” dell’imprenditore che non sembra neanche in agenda, e su cui gli imprenditori dovrebbero incalzare – questo fanno le lobby – l’esecutivo. Per esempio, sul fatto che con questa tassazione su lavoro e impresa in cambio di questi servizi non si cresce da nessuna parte al mondo. Un’organizzazione imprenditoriale, poi, deve necessariamente servire a fare una campagna di opinione condivisa sul fatto che la spesa pubblica inefficiente che serve a mantenere un ceto burocratico ampio e inutile va semplicemente tagliata. E non può nascondersi che il sistema degli incentivi alle imprese non ha funzionato: ha fatto esistere settori dal nulla senza che ci fosse una reale possibilità di tenuta, investendo quindi malamente risorse pubbliche che potevano meglio essere impiegate, ad esempio per abbassare la pressione fiscale. Ovviamente, un’organizzazione degli imprenditori che si rispetti non può non improntare all’efficienza che chiede al pubblico la propria organizzazione interna. E su questo fronte – nella selva intricata di potentati di settore e di territorio, tutti presi in guerre e guerricciole per le poltrone – in Confindustria c’è un sacco da fare. È questa un’urgenza particolarmente sentita adesso, perchè le imprese chiedono da un lato una vera rappresentanza di fronte al potere politico e legislativo, e dall’altro una serie di servizi agili e mirati per massimizzare il proprio lavoro e portarlo sui mercati che cresceranno nel prossimo futuro.
Su tutte questi problemi, e su molti altri, sarebbe bello che si giocassero davvero le campagne elettorali, di Confindustria e in prospettiva anche quelle della politica. Purtroppo ci si ferma spesso assai lontano e la colpa è senz’altro anche di un sistema informativo sul quale – a onor del vero – proprio gli industriali italiani hanno sempre preferito esercitare un sicuro controllo piuttosto che non ottenerne spunti e critiche per crescere. Non è comunque mai tardi per fare meglio, e per raccontare davvero quale sistema di rappresentanza si ha in mente e per quali scopi, al di là della sfida tra cordate e personalità che rischia sempre, alla fine, di interessare solo gli addetti ai lavori. Vale a dire, quasi nessuno.