E alla fine, per non sbagliare, il governo Monti riaffida la palla ai giudici e ai tribunali. Nella riforma dell’articolo 18 già venduta in Oriente, ritorna infatti una centralità dei giudici e della giustizia italiana che impone quantomeno di riflettere su cosa sia la macchina giudiziaria italiana e su quale prova dia di sé in tanti campi, ma soprattutto nel campo del lavoro. Anzitutto, un breve riassunto delle nuove norme come presenti nel ddl che ha avuto un primo ok di Bersani e un nulla osta da Alfano. Rientra la possibilità di reintegro per i casi di licenziamento in assenza di qual preciso “giustificato motivo oggettivo” che sono le crisi economiche. In sostanza, se un’azienda ha bluffato, se era “manifestamente insussistente il fatto posto a base del licenziamento”, il lavoratore può essere reintegrato.
Peraltro, nelle “altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo” (cioè in quelle in cui il motivo è sì infondato, ma non “manifestamente”) non si applica il reintegro, ma solo il risarcimento. A quanto ammonta? “Un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo”. E chi determina la differenza tra un motivo infondato e uno manifestamente infondato? Chi soppesa se, come e quanto un’azienda sia in crisi economica? Chi dà le diverse misure dei diversi elementi nella valutazione del risarcimento? I tribunali, naturalmente, che ritornano ad essere i veri protagonisti (ben più del legislatore) dei destini delle aziende e dei lavoratori.
Ovviamente, nei prossimi anni si svilupperà una ricca e contraddittoria giurisprudenza e – potete scommetterci – la parola protagonista di tutte le carambole argomentative e interpretative sarà l’avverbio “manifestamente”. Quello che per il giudice di Bologna sarà manifestamente infondato, per quello di Torino sarà solo infondato, oppure fondato anche se per il rotto della cuffia. Poi si andrà in appello e “infine” in Cassazione. “Infine” è per modo di dire, naturalmente, perchè – come una storia recente ben testimonia – la Cassazione può per statuto rispedire tutto in appello, e magari dichiarare che il diritto a ricorrere è “per sempre”. E magari – infine – fare tutto questo 13 anni dopo la fine del rapporto di lavoro in questione.
Insomma, nel paese degli azzeccagarbugli e di avvocati numerosi come in proporzione non sono da nessuna parte nel primo mondo, ha vinto ancora una volta chi vive nei (e dei) tribunali. Ha vinto, per quieto vivere politico, il potere di interdizione dei giudici (che ai sindacati risultano sempre più affidabili degli imprenditori) e appunto degli avvocati. Chi ha perso, chi perderà? I lavoratori e le imprese che, soprattutto se oneste di fronte a una controparte disonesta, troveranno difficilmente attraente l’ipotesi di un processo pluriennale imposto da chi hanno di fronte. Nota a margine: una possibilità così ampia e vaga di ricorrere alla giustizia, incentiverà molti a ricorrervi. E tanti saluti alla certezza del diritto e al sistema snello che il presidente Monti ha già promesso al mondo come una liberazione.
Forse non c’era altro modo per far approvare una riforma del lavoro in queste condizioni. Forse il potere di veto che la Cgil esercita sul Pd era troppo grande perché il Pd accettasse lo scalpo. Tutto vero. Certo questa riforma ha un paradossale merito: nel rimettere al centro della scena i tribunali (riformando nei fatti assai poco) obbliga a guardare una realtà scomoda. Una delle principali ragioni di paura degli investitori (italiani ed esteri) rispetto all’italia è la giustizia civile, i suoi tempi, le sue inestricabili burocrazia, la sua perenne incertezza. La riforma che serve va fatta lì. Abbattendo i tempi, limitando la discrezionalità delle decisioni, fissando poche regole precise. Qualcuno prima o poi dovrà farsene carico, se non vogliamo perdere gli ultimi treni mentre viviamo in un paese “manifestamente” nemico di chi ha voglia di investire e lavorare.