C’è un qualche godimento di troppo nella soddisfazione più o meno generale che accompagna lo sprofondo leghista. Sta esattamente in quella caduta della memoria che abitualmente è appannaggio degli ingrati o di coloro che fanno finta di non ricordare, di quelli che oppongono un certo senso di ribrezzo e di orrore nei confronti di un mondo padano, che in realtà non corrisponde alla verità politica di tutti questi anni. Una verità politica che ci racconta anche di un’altra Lega, portata in palmo di mano dalla sinistra per il motivo – fondativo e straordinario – che a fine ‘94 l’Umberto un bel giorno assestò un calcione nel sedere di Silvio Berlusconi, facendo così tracollare il suo primissimo (e molto breve) governo.
Si potrebbe forse sostenere che quella Lega era diversa, più democratica, meno straniero fobica, più avvezza allo stile di quanto gli anni successivi hanno poi rivelato? Giudicate voi. Resta il fatto che, all’epoca, molti mondi culturalmente attrezzati si rivolsero ai leghisti come attori di un unico salotto buono della politica, mondi imprenditoriali ai quali la produttività nordestina appariva evidentemente come una stella polare di una certa centrifuga economica, mondi giornalistici (di sinistra) ai quali Giorgio Bocca in primis diede la sua solenne benedizione, persino quel mondo delle “sciure” milanesi, da anni vedove di riferimenti eccitanti e tutte d’un colpo rianimate sentimentalmente dai rudi caratteri padani. Faceva tanto «travolte da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto».
Il racconto leghista, quello scritto dai giornalisti più intelligenti, come fu ad esempio Giorgio Lago, è stato il paradigma concreto di questi anni italiani. Il tentativo genuino di essere diversi, di sentirsi diversi e anche, naturalmente, di apparirlo all’esterno, è stato generoso ancorchè molto provinciale. Non era tanto la pulizia morale, il valore aggiunto dei leghisti – chi mai avrebbe potuto definirla per sentenza popolare – quanto proprio l’idea semplice e suggestiva che gente concreta, che lavorava sodo, che si alzava la mattina presto «per tirare di lima», che soprattutto rifuggiva le pastoie romane, potesse d’un colpo riscattare il Paese dalle sue nefandezze (Tangentopoli). Francamente, un’ipotesi del tutto ingenua.
Dopo la prima caduta di Berlusconi per mano di Bossi, molti elettori convintamente di sinistra votarono Lega. Era un modo per ringraziare (del cadeau) e ingraziarsi a futura memoria. Si era creato persino un perverso sentimento secondo cui – pur con tutte le differenze sociali e politiche – due anime così diverse fossero nate per stare gioiosamente insieme. Per la sinistra era diventato persino un tarlo, che ogni tanto riaffiora anche in tempi moderni, con sempre minor convinzione, a dir la verità.
A Bossi persona e leader politico, per anni e anni sono stati concessi sconti eccezionali. Innanzitutto per via giornalistica, lo dobbiamo ammettere amaramente: ma quanto tempo è dovuto passare, anche nei grandi quotidiani, perché si potesse leggere che modi, battute da caserma, razzismi, facevano parte di un mondo bru-bru, lontano anni luce dal rispetto e dalla decenza? Certo Bossi, al pari di Berlusconi ma in modo opposto, poteva affascinare, simbolo di una pretesa rivoluzione che più esplicita e diretta non poteva essere, e proprio per questo straordinariamente efficace sotto il profilo della comunicazione. Ma quante volte abbiamo dovuto subire, con tanto di enfasi giornalistica, le cazzate siderali di Umberto Bossi? E per quanti anni abbiamo dovuto aspettare uno straccio di critica, se l’obiettivo alto e nobile era poi il federalismo, quando del federalismo non v’è stata mai neppure l’ombra?
Insomma, il dittatore padano lo abbiamo tenuto in vita noi, più di quanto le sue forze intellettuali e fisiche gli consentissero. Un po’ di sano realismo non avrebbe guastato in tutti questi anni, se non altro per non essere troppo sorpresi oggi. Adesso accanirsi è persino un po’ maramaldo, visto che un pezzo di strada con il Senatùr lo hanno fatto tutti.